Ombre Rosse

La Giornata della Memoria del Covid

Nella foto: operatori sanitari (fonte Ministero della Salute)

Istituire la memoria obbligatoria per legge è sempre rischioso. Guarda un po’ che succede ogni anno per le Giornate della Memoria e del Ricordo: occasioni concepite per stringersi attorno a valori comuni scaturiti da immani ed indiscutibili tragedie diventano puntualmente lo spunto per dividerci ancora di più, mostrando una propensione a saltarci a vicenda alla gola che è l’unico vero momento in cui riportiamo alla consapevolezza comune quei fatti che retoricamente si stigmatizzano. Per non dimenticare, e giù botte da orbi.

Perfino sul gatto non ci si mette d’accordo. Il povero gatto nero, vittima della superstizione di ogni tempo e di ogni cultura, ha necessitato di una sua data specifica perché evidentemente quella del 17 febbraio non bastava, non gli competeva. C’è ancora chi cambia strada se la povera creatura gliela attraversa.

Quello delle Giornate ad hoc è un vizio da cui la nostra civiltà si è fatta infettare da tempo. Non ci si ricorda più di niente, nel bene o nel male, di quello che abbiamo combinato. Ecco dunque il calendario istituzionale venirci in soccorso come quello di Frate Indovino e dei Santi della Chiesa. Oggi san Leone vescovo, che provvide con singolare impegno alla cura dei poveri, oltre alla Giustizia Sociale si commemora il personale sociosanitario, assistenziale e volontario che in questi ultimi anni è stato in prima linea nella battaglia contro la pandemia da Covid.

Esistevano già altri momenti celebrativi ufficiali, gli infermieri per esempio hanno il 12 maggio, ricorrenza della nascita del loro nume tutelare Florence Nightingale. E allora perché istituire questa maxi-medaglia al valore civile che accomuna tutte le componenti professionali che entrano per lavoro in ospedale o nelle strutture dove ci si fa carico della salute dei cittadini? E perché il 20 febbraio?

Fu il giorno, tre anni fa, in cui un governo di arruffoni fu costretto ad ammettere che non era sotto controllo proprio niente. Il bacillo venuto da oriente fece registrare quel giorno il suo paziente numero uno (anche se in realtà il contagio si era diffuso fin dalla fine dell’estate precedente, tanto che il virus si chiama Covid19). Da quel momento chi gravitava a vario titolo nell’universo sanitario fu richiamato in servizio come fosse un militare, sospesi i permessi, le licenze e qualsiasi diritto civile. I camici bianchi o d’ogni altro colore entrarono in reparto senza sapere quando ne sarebbero usciti. Un turno lunghissimo e nei primi tempi anche pericolosissimo (il perché lo sa Arcuri). Alcuni di loro a casa non ci sono mai tornati.

La polemica sul coronavirus e sui modi di affrontarlo (in primis, il vaccino) è destinata a durare a lungo, anche adesso che la pandemia e la maxi-emergenza sono da considerare sostanzialmente terminate.

Il personale sanitario, sociale, assistenziale, di volontariato, si è ritrovato stremato, diviso al suo interno da una mancanza di solidarietà di categoria che non era lecito aspettarsi, lusingato da tanti bei discorsi seguiti da pochi fatti (l’ultimo rinnovo di contratto porta poco più di 50 euro in busta paga).

Di queste polemiche abbiamo dato conto in questo giornale per tutti e tre gli anni in cui sono divampate, assieme alle infezioni curate più o meno bene. Non è questa la giornata in cui vogliamo rinfocolare un dibattito tutt’ora pronto a degenerare. Ci limitiamo a riportare il dettato della legge istitutiva della Giornata nazionale del personale sanitario, sociosanitario, socioassistenziale e del volontariato, «per onorare il lavoro, l’impegno, la professionalità e il sacrificio del personale medico, sanitario, sociosanitario, socioassistenziale e del volontariato nel corso della pandemia da Coronavirus».

E’ un grazie per legge, poco più. Siamo già tornati a scannarci senza documentarci sul perché, a maledire strutture e personale a cui ci rivolgiamo ogni giorno, sempre meno a buon mercato e sempre più secondo agende incivili che rendono sempre più labile e distante la memoria del servizio sanitario nazionale che fu. E’ una guerra tra poveri che hanno un solo comune denominatore: sono – siamo – amministrati da fare schifo.

Ma un grazie non si nega a nessuno, a chi è tornato a casa con tre anni di ritardo, a chi non ce l’ha fatta a tornare, a chi comunque forse ha imparato qualcosa di nuovo: il collega che aveva perplessità sui vaccini non era un cialtrone che scaricava il proprio carico di lavoro su altri colleghi. Aveva soltanto le sue idee, legittimamente diverse, su come salvare la vita a se stesso ed agli altri. Anche a chi gli si è rivoltato contro come una belva, augurandogli una fine atroce.

Ma questo non è scritto né in questa né in nessuna delle altre leggi di questa repubblica.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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