Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio. Fino a poco tempo fa, gli italiani si dividevano in due categorie: chi aveva avuto un nonno nella Prima Guerra Mondiale e chi ne aveva avuto uno nella Seconda. La Canzone del Piave, ribattezzata poi Leggenda, la conoscevano tutti. Era stata scritta da Giovanni Gaeta, il celebre maestro autore di successi come Santa Lucia Luntana e Balocchi e profumi, nel giugno 1918 per celebrare le tante battaglie che avevano arrossato le acque del fatidico fiume che era stato il confine del Regno d’Italia con l’Impero Austro-Ungarico fino al 24 maggio 1915.
Quel giorno, per l’Italia cominciò la Prima Guerra Mondiale. Il resto d’Europa, quasi tutto, la combatteva già dai primi giorni di agosto dell’anno prima. E la preparava da tempo. La voglia di menare le mani era progressivamente montata tra le nazioni del Vecchio Continente attraverso gli ultimi anni del diciannovesimo secolo ed i primi del ventesimo. Si erano progressivamente formati due blocchi di alleanze: da un lato gli Imperi Centrali, quello Prussiano e quello Austro-Ungarico, che progettavano di estendere e rafforzare la loro egemonia sull’Europa attraverso la conquista della Penisola Balcanica e la realizzazione della Ferrovia Berlino-Baghdad, la via dell’Oriente da cui erano stati fino a quel momento tagliati fuori; dall’altro le potenze coloniali per eccellenza, Gran Bretagna e Francia, preoccupate di arginare l’ascesa della Prussia che dopo la guerra franco-tedesca del 1870 era sembrata inarrestabile, di tenerla fuori dai propri domini sparsi per il globo e semmai di estendere a proprio beneficio quei domini.
Al blocco di lingua tedesca si era fatalmente accostato l’Impero Ottomano, l’altro terminale di quella Ferrovia attorno alla quale ruotavano interessi economici enormi. Da ex nemico, il Sultano di Istanbul aveva pensato di arginare il declino della Porta d’Oro stringendo un’alleanza militare con Vienna (contro cui aveva combattuto per secoli) e con Berlino. Questa alleanza chiudeva la strada all’Impero Russo, sia sui Dardanelli che nella Penisola Balcanica, ed ecco quindi lo Zar di tutte le Russie unirsi all’Entente Cordiale anglo-francese a formare la Triplice Intesa. Questo fu dunque il nemico che l’Austria –Ungheria si attirò addosso con l’ultimatum alla Serbia dopo l’attentato di Gavrilo Princip all’Arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo.
Da questo quadro le cui tinte si facevano sempre più fosche fino alla deflagrazione di quella che Papa Benedetto XV avrebbe chiamato la inutile strage, l’Italia si era tenuta apparentemente fuori fino alla primavera del 1915, unico paese europeo di una certa importanza insieme alla Spagna. Ma se la monarchia dei Borbone di Madrid, dopo el disastre del 1898 nella guerra ispano-americana, si era ripiegata su se stessa e sull’orizzonte limitato della conquista del Sahara Occidentale e del Rif marocchino (avviando peraltro quella catena di eventi che avrebbe portato alla guerra civile ed alla dittatura di Franco), quella italiana si era sentita irresistibilmente attratta da quel gioco pericoloso che le Cancellerie e le diplomazie d’Europa conducevano sull’orlo di quel baratro che si sarebbe spalancato a Sarajevo.
La conquista della Tunisia da parte della Francia nel 1881 aveva spinto la giovane nazione appena sorta dal Risorgimento – grazie proprio all’aiuto determinante dei francesi – a reagire impulsivamente ed a gettarsi nelle braccia degli austro-tedeschi, formando così la Triplice Alleanza. Era un connubio innaturale, non solo da un punto sentimentale perché portava l’Italia a schierarsi a fianco di un nemico atavico, il tedesco, e contro popoli e paesi fino a quel momento sentiti come amici ed affini, inglesi e francesi, ma anche dal punto di vista dell’interesse nazionale. Malgrado la deriva colonialista che aveva portato alle guerre di Etiopia e di Libia, il nucleo centrale del sentimento nazionale e nazionalista era costituito dall’aspirazione al completamento del Risorgimento, con la riunione al territorio nazionale delle province irredente di Trento e Trieste, dell’Istria e della Dalmazia. Ciò significava prima o poi una quarta guerra di indipendenza contro l’Austria.
Quando le cose volsero al peggio, l’Italia fece capire chiaramente il proprio disagio circa la permanenza nei termini di una trentennale alleanza che non si era presa peraltro la briga di denunciare, mentre cercava il proprio posto al sole in Etiopia e nel Corno d’Africa, a ridosso dei possedimenti britannici, e poi in Libia, a ridosso di quelli francesi e ad un passo dall’Egitto e dal Canale di Suez, due gioielli della Corona della Regina Vittoria e dei suoi eredi.
Quando Francesco Giuseppe dette l’ultimatum alla Serbia, decretando così senza saperlo la fine del proprio glorioso impero (che infatti gli sopravvisse solo per pochi mesi), il governo del Re Vittorio Emanuele III, in quel momento nelle mani di Antonio Salandra, fu ben felice di mettere in mora la Triplice Alleanza, appellandosi alla clausola che ne faceva tecnicamente un’alleanza difensiva. Essendo stata l’Austria-Ungheria l’aggressore della Serbia, l’Italia restò fuori dalla guerra per i primi nove mesi.
Non furono mesi facili per la classe dirigente italiana, spaccata in due tra neutralisti ed interventisti. Tra i primi erano sicuramente da annoverarsi i socialisti ed i cattolici, per motivi ideologici, mentre liberali e conservatori si ritrovavano divisi al proprio interno. Salandra era un ex delfino di Giovanni Giolitti, il vecchio leader carismatico che aveva traghettato il fragile stato liberale italiano nel ventesimo secolo e nella società di massa. Giolitti riteneva che l’Italia sarebbe uscita con le ossa rotte dalla guerra, sia che la vincesse sia che la perdesse (e i fatti gli avrebbero dato ragione), non essendovi affatto preparata ne socialmente né militarmente. Salandra si discostò presto dalle sue posizioni, mettendosi a capo del partito che voleva riprendere la lotta risorgimentale e l’espansione coloniale.
Nei primi mesi del 1915, mentre la guerra da blitzkrieg prussiana si trasformava in guerra di trincea su tutti i fronti, dalla Marna ai Dardanelli, entrambi gli schieramenti fecero pressioni sul governo italiano offrendo ricompense. Quelle che furono messe sul tavolo alla fine di aprile a Londra dagli anglo-francesi davanti a Salandra ed al suo ministro degli esteri Sidney Sonnino furono inevitabilmente più appetibili. Il calcolo degli uomini politici italiani era comunque di ottenere quei vantaggi territoriali ed economici che la nazione chiedeva con uno sforzo relativo, in ciò smentendo le fosche previsioni di Giolitti. La discesa in campo dell’Italia secondo loro avrebbe spostato in maniera determinante il fragile equilibrio bellico in favore dell’Intesa.
Il patto segreto firmato da Salandra e Sonnino nella capitale britannica il 26 aprile 1915 era finalizzato a dare il tempo all’esercito italiano di mobilitarsi senza subire ritorsioni anticipate da parte austriaca. Il 3 maggio Roma denunciò a Vienna la Triplice Alleanza dichiarandola decaduta, il 23 il governo italiano dichiarò guerra a quello austro-ungarico (ma non a quello prussiano, per una singolare ipocrisia diplomatica). Nella notte tra il 23 ed il 24 maggio i primi fanti attraversarono il confine che da cinquant’anni rappresentava la sospensione del Risorgimento. Si apriva un fronte che andava dal Cadore al Carso lungo tutto l’arco dolomitico e su cui Italia ed Austria sarebbero rimaste inchiodate per tre anni e mezzo. Per l’Italia era cominciata la Grande Guerra.
Il popolo italiano per la stragrande maggioranza partecipò emotivamente alla chiamata alle armi con lo stesso entusiasmo con cui aveva partecipato a tutto il Risorgimento: praticamente nessuno. Ma i nostri nonni in divisa fecero il loro dovere, malgrado fossero inquadrati in un esercito messo a dura prova dalla campagna di Libia del 1912-13, mal diretto da comandanti inadeguati e comunque sottodimensionato almeno inizialmente rispetto al compito che lo attendeva. Alla fine il bilancio di sangue italiano fu di 1.240.000 morti, di cui 650.000 militari e 590.000 civili. La stessa cifra della Gran Bretagna e dei suoi Dominions e di poco inferiore a quella della Francia e relative colonie, nonché dell’Impero Austro-Ungarico. Di gran lunga più alto il tributo pagato da tedeschi (2.475.000), turchi (2.922.000) e russi (3.755.000).
Quando Giovanni Gaeta scrisse la Leggenda del Piave, le sue acque si erano tinte di rosso tante volte da quel primo passaggio di fanti del 24 maggio 1915. Nell’ultimo anno di ostilità, tra la rotta di Caporetto di cui aveva costituito l’argine estremo e l’ultima disperata controffensiva della Landwehr austriaca, rimasero sulle sue sponde circa 85.000 soldati del regio esercito ed almeno il doppio di soldati imperiali.
Vincitori e vinti, quando il 4 novembre 1918 il generale Armando Diaz poté proclamare da Vittorio Veneto la fine delle ostilità e la vittoria italiana (con l’incrociatore Audace che il giorno prima aveva attraccato al molo di Trieste che da allora porta il suo nome), erano due paesi stremati, al pari del resto del continente. Della orgogliosa sicurezza con cui da tutte le parti si erano attraversati i fiumi d’Europa, non solo il Piave, non restava più niente.
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