Sport

La leggenda di Federica

Vivere lo sport, e di sport, perché non esiste metafora della vita più affascinante. Aspettare – attraverso gli anni, le gare, i risultati – il personaggio la cui storia ti prende, come in uno di quei romanzi che ti tengono avvinto fino a un attimo prima di terminarne la lettura e di cui avverti la nostalgia e la mancanza un attimo dopo, già mentre lo riponi nella tua biblioteca personale. Essere consapevole che quell’impresa a cui hai assistito è unica, irripetibile. La ricercherai in tante altre occasioni, nelle inquadrature che la televisione continuerà a proporti a proposito di tanti altri personaggi a venire, perché non smetterai certo stasera, con quei fotogrammi scintillanti di gloria negli occhi, di seguire lo sport, di leggere quei romanzi. Ma sai benissimo che non la rivivrai più, non ne vedrai passare una uguale. Non nell’arco della tua vita.

Lo schiaffo di Federica Pellegrini all’acqua amica di Budapest è il fotogramma consegnato alla leggenda dello sport. Questa ragazza ci entra di diritto, dopo averne fatto la storia per quindici anni. L’avevamo lasciata in lacrime giù dal podio olimpico di Rio, finalmente umana nel momento in cui aveva realizzato – e fatto realizzare a noi tutti – che il tempo passa ed è l’unico avversario che un grande campione o una grandissima campionessa non potranno mai sconfiggere.

Un anno dopo, è qualcun’altra a piangere. L’ultima gara della carriera di Federica si conclude con lei sul gradino più alto, lanciata in aria dall’acqua di una piscina che è stata lo strumento perfetto della sua impresa più recente e più grande, e che adesso esalta il principio di Archimede proiettandola su quell’Olimpo a cui, da subito dopo aver toccato questo ultimo traguardo, appartiene.

A molti non sta simpatica, Federica. Troppa classe, troppo carisma, troppi successi. Il giornalista italiano medio, sportivo e non, non ama confrontarsi con queste cose. I nostri connazionali in genere non perdonano il successo, e ancor meno la sconfitta. Non perdonano niente a chi si eleva da una mediocrità che sembra essere diventata la condizione di vita di questo paese. Il suo dettato costituzionale.

Non è stata simpatica la Fede, come non lo è Valentino Rossi, non lo erano Alberto Tomba, Adriano Panatta, Gianni Rivera. Gente che giocava con gli Dei, e vinceva. Lo schiaffo di Fede all’acqua l’abbiamo già visto, alcune altre volte. La racchetta di Adriano che vola via in cielo un attimo dopo l’ultimo punto, quello vincente, al Foro Italico o al Roland Garros nel 1976. Valentino che sale in piedi sulla moto, subito dopo una delle sue 120 vittorie mondiali. Albertone che si accascia sulla neve dopo aver bruciato centesimi di secondo e avversari mostruosi in uno dei suoi 50 slalom olimpici e mondiali. Gianni l’abatino che si accascia tra le braccia di Gigi Riva dopo aver segnato uno dei suoi gol, quello più importante, all’Azteca di Città del Messico: il quarto – decisivo – che stende la Germania Ovest.

Il giorno dopo, ci si rimette a seguire lo sport, sapendo (ma non ammettendolo a noi stessi) che questi momenti non torneranno, che quel campione e quella campionessa vanno in archivio, nella nostra Hall of Fame, e che tutto ciò che vedremo scorrere d’ora in poi sarà una delusione, acuita proprio dall’aspettativa di voler rivedere, rivivere, Momenti di Gloria come quelli trascorsi. Rileggere storie metafore di una vita resa più affascinante (e accettabile) proprio da quei momenti.

Continueremo a seguire il tennis anche se nessuno volerà più sotto rete come Panatta. Lo sci anche se nessuno aggredirà i paletti come Tomba. La moto, anche se un altro Valentino chissà se  e quando nascerà. Il calcio, anche se questi di adesso trattano il pallone come un sacco di spazzatura che fa schifo prendere in mano. Il nuoto, anche se la nostra Phelps in gonnella, la Fede, ha appena annunciato il suo ritiro, e già la piscina ci sembra spaventosamente vuota, come quando tolgono l’acqua per manutenzione.

Abbiamo seguito il basket sperando di rivedere un giorno un altro Michael Jordan e un altro Dream Team. Il volley illudendoci di veder rinascere un’altra generazione di fenomeni come quelli di Julio Velasco. La Formula 1 sognando un altro Niki Lauda, e già ci era andata bene con Ayrton Senna e Michael Schumacher. Siamo aggrappati a Rafa Nadal e Roger Federer, dopodiché il tennis sarà veramente finito. A Vincenzo Nibali, senza del quale il ciclismo forse per noi sarebbe già morto, dopo la morte del Pirata.

Siamo a scorrere le pagine di nuovi romanzi, sperando di imbatterci in un nuovo Connelly o in una nuova Cornwell, in grado di raccontarci qualche nuova storia, a proposito di qualche eroe o eroina, che prolunghino all’infinito la leggenda.

E quelle pagine stamani ci sembrano stranamente e tristemente vuote.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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