Tutta l’Italia aspetta l’arrivo di Burian. Pochi sanno che questo nome esotico, da condottiero di orda barbarica dell’alto Medioevo, deriva da una parola greca con cui i nostri antenati designavano il vento di nord-est che periodicamente arriva dalle steppe russe attraverso quelle ungheresi a sconvolgere la nostra penisola. Βορέας, Borea in italiano, Aquilone nella versione latina, era uno dei tanti figli del Dio del Vento, Eos o Eolo. A quanto pare, il più turbolento, intemperante.
Le città e i paesi che si affacciano sull’Adriatico Borea lo conoscono bene, è presente nella loro toponomastica e soprattutto nella loro cultura. A cominciare da Trieste, la più orientale delle nostre città, tradizionalmente la nostra porta del vento. La città della Bora per antonomasia.
Ecco dunque da Trieste la legenda de Madona Bora. Come fu che il vento del nord incontrò e si unì all’eroe che avrebbe dato il nome alla città.
Molti, molti anni fa Eolo, scorrazzando per il mondo con i suoi figli, capitò in un verde altipiano che scendeva ripido verso il mare. Bora, la più bella e amata figlia delle sue figlie, incantata dalla bellezza del paesaggio, si allontanò dalla turbolente brigata dei fratelli per correre nel cielo a scombussolare le nuvole a pecorelle e a giocare fra i rami degli alberi, che si agitavano allegri al suo passaggio.
Stanca di correre di qua e di là Bora entrò in una grotta dove, sulla via di ritorno dall’impresa del Vello d’Oro, stava riposando l’umano eroe Tergesteo. Tergesteo era così forte e così bello e così diverso da tutte le creature, che Bora aveva visto e conosciuto fino a quel momento, che di colpo se ne innamorò. Amore che Tergesteo ricambiò con uguale passione: e i due vissero felici in quella grotta tre, cinque, sette splendidi giorni felici.
Quando Eolo si accorse della fuga di Bora, si mise tempestosamente a cercarla, fino a quando un cirro-nembo brontolone, infastidito da quel gran putiferio che lo stava sbatacchiando su e giù per il cielo, gli svelò il rifugio dei due amanti. Eolo giunse alla grotta e, come vide Bora abbracciata a Tergesteo, la sua rabbia crebbe e diventò un ciclone che si avventò contro l’umano, sollevandolo e scagliandolo contro le pareti della grotta, più e più volte, finché l’eroe restò immobile al suolo, senza più vita. Poi, calmato ma non rabbonito, senza colpo ferire, lasciò Bora al suo destino.
Bora, straziata dal dolore, incominciò ad urlare e a piangere tanto forte che ogni sua lacrima si trasformava in pietra. Nel tentativo di consolarla da tanta disperazione, Madre Natura dal sangue di Tergesteo fece nascere il Sommaco, che da allora inonda di rosso l’autunno del Carso. Ma Bora piangeva ancora e ancora e le pietre erano ormai talmente tante, da ricoprire tutto l’altipiano. Allora Madre Natura, angosciata da tutti quei sassi che andavano a rovinare i suoi verdi prati in fiore, concesse a Bora di rimanere per sempre vicina al corpo di Tergesteo.
Ma Bora non smetteva i suoi lamenti, tanto che persino gli dei si preoccuparono e, per sanare la situazione, Eolo concesse a Bora di rivivere ogni anno quei tre, cinque, sette giorni d’amore fra le braccia di Tergesteo e Nettuno ordinò alle Onde di ricoprire con conchiglie, stelle marine e verdi alghe il corpo dell’eroe affinché diventasse un alto colle, il più bello di quest’angolo di mondo. Finalmente Bora si placò ma lasciò per sempre l’eco dei suoi lamenti nel fruscio delle fronde.
Dopo molti, molti secoli gli uomini giunti su queste terre si insediarono sul colle di Tergesteo e vi costruirono un Castelliere con le lacrime di Bora diventate pietre. Il Castelliere con il tempo diventò borgo – villaggio – città. Una città, che in ricordo di questo leggendario amore venne chiamata Tergeste, dove ancora oggi Bora regna sovrana, soffiandovi impetuosa: ”chiara” fra le braccia del suo amore “scura” nell’attesa di incontrarlo.
(_Aantica leggenda triestina)
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