Era un ragazzo del barrio, con la prospettiva di non lasciarlo mai, come tanti altri ragazzi della sua età. Ma la mano di Dio, che avrebbe accompagnato la sua vita e la sua carriera sportiva, lo aveva dotato di un piede altrettanto divino. A 10 anni, Diego Armando Maradona toccava già la pelota come nessun altro. O meglio, uno c’era, e proprio quell’anno diventava campione del mondo per la terza volta, in Messico: Edson Arantes do Nascimento, detto Pelé.
Brasiliani e argentini non si amano, anzi. Loro due tuttavia avrebbero dovuto imparare ad andare d’accordo, perché a furor di popolo (il popolo di tutto il pianeta) avrebbero dovuto condividere per sempre il titolo di più grande.
A 10 anni, Diego lasciò il barrio di Lanus a Buenos Aires dove era nato, e vestì la casacca dell’Argentinos Juniors, la prima delle squadre in cui avrebbe militato nella sua carriera che nessuno allora poteva prevedere così luminosa. Otto anni dopo, era diventato el pibe de oro, il ragazzo d’oro. E la più grande promessa del calcio mondiale. Ce n’erano state prima di lui. Il nostro Gianni Rivera era stato anche lui soprannominato il golden boy, per dirne uno. Ma a nessun altro quel soprannome sarebbe stato bene addosso come a lui.
Diego giocava, incantava, e sembrava non avere fin dalla tenera età nessuno dei vizi che le stelle di qualunque spettacolo sembrano coltivare tanto facilmente. Il genio si vedeva fin dall’inizio. La sregolatezza si sarebbe manifestata più tardi.
Nel 1978, poco prima che diventasse maggiorenne, l’Argentina ospitava un campionato mondiale di calcio che aveva atteso a lungo, anche e soprattutto per smuovere quella casellina delle vittorie ancora ferma allo zero, a fronte dei fastidiosi tre titoli vinti dal Brasile e dei due vinti dall’Uruguay. Purtroppo, era anche il mondiale delle matite spezzate, organizzato dalla ferocissima Junta militare di Videla che aveva trasformato il paese in un enorme campo di concentramento. Molte famiglie erano occupate nella ricerca dei loro congiunti desaparecidos, e tuttavia el pueblo argentino aspettava a gloria el mundial, sentendo di poterlo vincere. Il selezionatore, Cesar Luis Menotti detto el flaco, volle allestire la selecion andando sul sicuro, per non rischiare di presentarsi alla fine a Videla con una sconfitta. Molti gli suggerivano di convocare quel ragazzo che trasformava in oro ogni pallone che toccava. Lui preferì affidarsi ad Osvaldo Ardiles, a Mario Kempes, a Daniel Passarella, ed ebbe ragione. El caudillo Passarella sollevò la coppa togliendola dalle mani sporche di sangue del dittatore argentino. Per portare in nazionale el pibe de oro c’era tempo.
Ma neanche tanto. Quando l’anno dopo l’albiceleste si mise in giro per il mondo per monetizzare il fresco titolo di campeon, Maradona era già un suo titolare fisso, e lo sarebbe rimasto fino al 1994. Il ragazzo cominciò ad incantare le platee di tutto il mondo dopo aver incantato quelle argentine. La sua rivalità soprattutto caratteriale con il capitano della nazionale, il molto più concreto ed altrettanto carismatico Passarella, non permise ai campioni in carica una efficace difesa del titolo in Spagna nel 1982. Claudio Gentile annullò il fuoriclasse Maradona come avrebbe fatto pochi giorni dopo con il fuoriclasse Zico, e la coppa quella volta la alzò Dino Zoff.
Ma quattro anni dopo, l’Italia era al crepuscolo ed altrettanto lo era Passarella. La scena era tutta di Diego, e come andò a finire è storia. La mano de Dios quella volta fu birichina, aiutando Diego a vendicare la sconfitta argentina alle Falklands contro gli inglesi con un gol di quelli che si perdonano soltanto ad uno come lui. Il raddoppio in compenso lo segnò alla grande, scartando da solo mezza Inghilterra e andando a mettere a sedere il portiere Shilton con una facilità che sembrò irrisoria. Perché irrisorio sembrava tutto ciò che lui faceva.
Una volta sul tetto del mondo, il difficile per Dieguito arrivò allora. Sbarcato in Europa grazie al Barcellona, l’impatto con un calcio come quello spagnolo che allora era molto meno tecnico e molto più irrispettoso degli assi stranieri (Cruyff a parte, ma il Pelé bianco veniva dal calcio totale e dalla più grande Olanda di tutti i tempi) fu durissimo.
Due anni dopo eccolo a Napoli, e dopo ancora eccolo di nuovo ad alzare una coppa forse altrettanto importante: quella che si assegna al vincitore dello scudetto italiano. Sembrava che Napoli, patria della sregolatezza e del genio come poche altre, non dovesse mai farcela a vincerlo. Bastò invece che si sposasse con il napoletano onorario Maradona, che benché nato a migliaia di chilometri di distanza sembrava in realtà un figlio prediletto e predestinato dei barrios partenopei.
Ha spiegato, molti anni dopo, un altro genio e sregolatezza assoluto come lui (un campione che gli sta appena un gradino sotto), Zlatan Ibrahimovic: puoi togliere un ragazzo dal ghetto, ma non potrai mai togliere il ghetto da un ragazzo.
Chiaro, no? Il successo è sempre stata una brutta bestia da domare per gli sportivi così come per tutti gli altri uomini e donne dello spettacolo in genere. Se vieni da un posto dove ti sembrava un miraggio, prima o poi te lo troverai di fronte ad importi comportamenti che ti porteranno a pagare un conto salatissimo.
Negli anni in cui conquistava Barcellona e poi soprattutto Napoli, la cocaina conquistava lui. Quando vinse il secondo scudetto con la maglia celeste datagli da Ferlaino, Diego Maradona era ormai un tossicodipendente. Nel mirino tra l’altro della polizia italiana.
La trappola scattò dopo Italia 90. Diego guidava una Argentina mediocre, che tuttavia si issò grazie al carattere di tutti ed alle sue giocate fino alla semifinale contro gli azzurri di Vicini, superfavoriti dal pronostico. El pibe quella volta se la giocò da furbetto, mediaticamente, parlando alla vigilia della gara ai napoletani come se fossero i suoi compatrioti di Baires, con toni e argomenti degni di un Giustino Fortunato che perorava la questione meridionale.
Andò come tutti sanno, gli azzurri non riuscirono a tenere il vantaggio e a rimanere freddi ai calci di rigore. In finale a Roma ci andò la selecion, che fu fischiata dagli italiani indispettiti per l’esito del match precedente. Hijos de puta, sibilò Diego in lacrime durante quei fischi. La coppa fu alzata dalla Germania, che per l’ultima volta si presentava come Ovest e per la prima volta si presentava da favorita contro l’Argentina. La più brutta finale mondiale di sempre, decisa come altre volte da un episodio dubbio.
Il Maradona che fece ritorno nella sua Napoli era quasi irriconoscibile. Dedito più ai coca party che agli allenamenti, la sua parabola sportiva e forse anche umana fu interrotta dalla polizia italiana che fece irruzione nell’appartamento dove si svolgeva il festino a base di droga e prostitute e gli presentò tutti i conti in sospeso, non solo quello di Italia 90.
Diego fuggì in Argentina, in Italia ci sarebbe tornato solo molti anni dopo, appena andato in prescrizione il mandato di cattura spiccato contro di lui dalla nostra magistratura. Sarebbe riapparso agli onori delle cronache sportive a USA 94. Formidabile l’albiceleste di quell’anno, che schierava lui e Batistuta insieme a tanti altri campioni. Maradona fu fermato dalla DEA, insospettita dalle sue pupille dilatate sbattute in faccia ad una telecamera dopo il gol che valeva la qualificazione argentina agli ottavi di finale. Ai quali la squadra si presentò orfana del suo fuoriclasse. L’altro che aveva, Batistuta, non le bastò a proseguire il cammino.
Finita la storia, cominciò la leggenda. Il mondo che si divideva in due: più grande lui o più grande Pelé? Gli appassionati di calcio del pianeta che lo acclamavano comunque e dovunque, e nessuno sembrava riuscire mai a volergli male. I grandi della terra, soprattutto quelli del continente latino-americano che lo facevano sedere accanto a loro, come uno di loro. A cominciare da quel Fidel Castro che lo paragonò a quel Che Guevara che era stato suo compagno di gioventù e di rivoluzione cubana.
Mentre a Napoli ci si struggeva di nostalgia e gli si dedicavano altarini in attesa di un suo avveniristico ritorno, Diego si struggeva cercando di combattere le sue dipendenze, il tempo che passa per tutti inesorabile, le sue vicissitudini familiari, la bestia del successo che ha sempre qualche conto da presentarti, soprattutto se non hai mai scordato il barrio, la favela, lo slum da cui provieni. E che restano dentro di te.
Quante volte in ospedale, quante corse per risolvere un problema di salute più o meno grave in un fisico sempre più appesantito da quelle sregolatezze che già ai tempi d’oro combattevano con il suo genio. Quanti cinque battuti su quella mano de Diòs che fino ad ora lo aveva risparmiato. E ce lo immaginiamo il nostro Dio a scuotere la testa bonario e a sospirare ad ogni bravata di questo suo figliolo, uno dei più discoli ma anche uno dei più simpatici. Un figliolo che non solo i suoi genitori ma tutto il suo paese e poi tutto il mondo avevano un giorno ormai lontano soprannominato il ragazzo d’oro.
Finché anche Nostro Signore ha dovuto chiamarlo a sé, come un mister qualsiasi. Basta così, cambio. Si alzi qualcun altro dalla panchina e inizi il riscaldamento, Dieguito si è meritato il riposo. Il suo cuore ne ha affrontate tante, è ora che i suoi battiti si acquietino. Che la sua anima di giocoliere abbia pace.
Se n’è andato il 25 novembre, lo stesso giorno del suo amico Fidel Castro. Lo stesso di George Best, un altro come lui, uno con cui avrebbe potuto passare almeno delle belle serate, non avendoci potuto giocare insieme da ragazzo.
Non ha senso stabilire chi sia stato il più grande. Ha senso soltanto dire che senza questi fuoriclasse, il calcio del loro tempo non avrebbe potuto assomigliare così tanto al Rinascimento ed ai suoi artisti.
Come ha detto qualcuno, in fondo non ha importanza cosa ha fatto Diego Maradona della sua vita. Ciò che importa, è quello che ha fatto della nostra.
Descanza en paz, el Pibe.
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