Manuel Rui Costa e Giancarlo Antognoni, che cosa li accomuna, oltre al posto nel cuore della gente viola? Semplice, il numero magico del calcio, quello che più eccita la fantasia e nobilita il gioco. Quello riservato a chi sa compiere magie. Il numero 10.
Il calcio moderno si è ingegnato in ogni modo possibile di distruggere la poesia, l’alone di favola e di leggenda che aveva ereditato da quello più antico del tempo dei nostri padri, e di noi bambini. Allora, le maglie ai giocatori non venivano assegnate a caso. Il 9 era il numero del centravanti, l’1 del portiere, il 2 e il 3 dei terzini, il 6 era il mediano, il 5 lo stopper, il 4 il libero, il 7 e l’11 le ali. L’8 era il centrocampista d’ordine. Il 10 era il fantasista. Il fuoriclasse. La bandiera della squadra, per chi ce l’aveva.
Adesso, come nell’american football o nel basketball, le maglie si danno a seconda dell’estro del momento, dell’ordine di arrivo in ritiro, del numero o della data da dedicare a qualcuno. Si indossano con la stessa disinvoltura (a volte sciagurata) con cui si ostenta un nuovo, improbabile taglio di capelli o un tatuaggio. E vai a spiegare a questi ragazzi che rinunciando al loro numero classico rinunciano al ruolo, e con esso al loro posto nella storia di questo sport, spesso e volentieri.
Si può discutere su tutto, poi. Nel calcio moderno, figlio spesso illegittimo di quella rivoluzione olandese di quaranta anni fa, tutti devono saper fare se non tutto, quasi. Dal terzino al centravanti, l’unico che è rimasto con il posto fisso ormai è praticamente solo il portiere. Salvo lasciarsi colpire ogni tanto da quelle botte di nostalgia canaglia per quei fuoriclasse, quei funamboli della pelota che, guarda caso, se li facevi voltare avevano tutti sulle spalle lo stesso numero: il 10.
Come una razza in via di estinzione, verrebbe voglia di dichiararli specie protetta, dopo aver assistito all’ultimo calcio di Pirlo, Totti, Del Piero. Grandi ormai del passato, figure da Corridoio Vasariano. E quando all’orizzonte si è affacciato un Bernardeschi, c’è stato quasi da bandire un referendum cittadino per decidere se assegnargli quella maglia che qualcuno avrebbe voluto veder ritirata, e da tempo. E magari a questo punto non a torto.
E’ difficile vedersi riconosciuto, su questa piazza più che altrove, il diritto a quel numero 10. Per certe cose, Firenze custodisce gelosamente i suoi capolavori artistici. Da Filippo Brunelleschi a Giancarlo De Sisti, da Lorenzo Ghiberti a Giancarlo Antognoni, da Michelangelo Buonarroti a Roberto Baggio, il 10 non è una cosa da dare a cuor leggero. Anche perché, una volta dato, è per l’eternità.
La storia della Fiorentina poi, di una squadra che non ha vinto molto ma che quando lo ha fatto, lo ha fatto sempre con eleganza ed in modo da sfiorare i contorni della leggenda, del mito, tende a coincidere spesso e volentieri con quella dei suoi numeri 10.
Fino agli anni cinquanta, i viola che assurgevano a fama nazionale avevano numeri disparati, da Mario Pizziolo a Ferruccio Valcareggi a Egisto Pandolfini. L’associazione indissolubile tra numero 10 e fuoriclasse cominciò con Miguel Angel Montuori. L’anno era il 1955-56, un anno fatidico perché fu quello del primo scudetto in riva all’Arno. Si chiamava, guarda caso, Michelangelo, era argentino naturalizzato cileno, e poi italiano come oriundo (allora usava, e il cognome però doveva avere assonanze italiane, altro che Eder o Jorginho). Il fuoriclasse assoluto di quella Fiorentina era Julio Botelho detto Julinho, la più forte ala brasiliana di tutti i tempi insieme a Garrincha. «Un’ala può arrivare fino a Julinho, e non oltre», diceva il suo mister, l’altrettanto mitico Fulvio Bernardini. Con Julinho all’ala, a Montuori toccò il 10, e fu il primo a rendersene più che degno.
Fu il primo 10 innamorato di Firenze, che non lasciò mai né da giocatore né da cittadino normale. La sua carriera fu interrotta da una pallonata al volto ricevuta in nazionale azzurra. La sua vita alla fine accorciata da un male di quelli che si definiscono incurabili. Dopo l’intermezzo di un altro argentino che prometteva bene, Ramon Francisco Lojacono, il 10 approdò finalmente sulle spalle di un predestinato italiano. Giancarlo De Sisti detto Picchio era romano de Roma, Nello Baglini – che aveva davvero un progetto, quello di far grande una Fiorentina di tutti ragazzi – andò a pescarlo insieme a Claudio Merlo nelle giovanili capitoline.
Picchio, e il Secco quando lui era indisponibile, portarono il 10 come si conviene attraverso uno scudetto, una salvezza e una rifondazione coincidente con il passaggio di proprietà da Baglini a Ugolini. Il quale pensò di poter fare a meno di De Sisti visto che aveva messo le mani su Antognoni, stavolta sfilandolo sotto il naso alla Juventus. Da Giancarlo a Giancarlo, chissà cosa avrebbero fatto il vecchio e il giovane se fossero rimasti insieme, non lo sapremo mai.
Sappiamo invece cosa ha fatto Antognoni. Talmente tanto da rimanere nella storia viola come paradigma. Dopo di lui, si indossa il dieci solo a patto di avvicinarsi a non troppa distanza a quelle stelle che lui guardava da vicinissimo, quando giocava. E non senza comunque aver scontato inevitabili preventivi mugugni e bocche storte da parte di una tifoseria attentissima e gelosissima.
Nessuno discusse per la verità Roberto Baggio, erede designato di Antognoni come lui lo era stato di De Sisti. Fu Ranieri Pontello, proprietario del suo cartellino ai tempi in cui le bandiere venivano frettolosamente ammainate e Bosman stava per dare il suo nome alal famigerata legge, a metterlo in discussione. La cessione alla Juve del Codino fu una doccia gelata da cui Firenze praticamente non si è mai più ripresa.
Ci provò Massimo Orlando, giovane mezz’ala di bellissime speranze, a non far rimpiangere Baggio. Ma era un compito improbo. Andò meglio a Manuel Rui Costa, che un Antognoni diventato nel frattempo direttore sportivo era andato a pescare al Benfica, in Portogallo. Rui giocava su ritmi lusitani, struggente e fascinoso come il fado. Rui alzò al cielo l’ultimo trofeo della Fiorentina, il 13 giugno 2001. Quella Coppa Italia che Firenze applaudì tra le lacrime – da lui ricambiate – perché sapeva già che quella era la sua ultima partita in viola. Venduto al Milan, insieme a tutti i big di quella squadra, per scongiurare l’imminente fallimento di Vittorio Cecchi Gori.
E venne il tempo dei progetti. Tra i quali, quello – condiviso per la verità da tutto il movimento e dalla Federazione – di rendere il calcio uno spettacolo sempre meno qualificabile come sportivo e sempre più come business. Che posto poteva avere in questo contesto di fair play finanziari e di clientele la leggenda del numero 10?
Eppure, dopo il tentativo niente affatto malvagio di Stefano Fiore, l’epopea viola aveva ancora in serbo per i suoi tifosi un ultimo scampolo della passata Grande Bellezza. Adrian Mutu fu pescato tra le macerie della Juventus di Moggi. Nei quattro anni e poco più che restò in riva all’Arno a miracol mostrare, si meritò nientemeno l’appellativo di Fenomeno, da parte di una tifoseria sempre restia a concedere simili appellativi, e più propensa semmai ad elargirne di assai più dissacranti.
La favola del Fenomeno fu interrotta dalla sregolatezza che da sempre si accompagna ad un certo genio, oltre che da uno scarso sostegno tributatogli dalla società viola in occasione del suo avere a che fare con la giustizia sportiva. Forse, come in passato, il cuore societario fu alleggerito dalla consapevolezza di aver già pronto il talento successivo, come già successo altre volte. Ma a Stevan Jovetic infortuni (gravi) e prestazioni altalenanti guadagnarono piuttosto il soprannome del Bua. Fine della storia. Firenze, quando boccia, boccia.
E si arrivò così a Ruben Olivera, e a quella decisione improvvida di affidare alle sue spalle, sostenute da piedi che più ruvidi non si può, la maglia che sarebbe stato meglio aver ritirato (soprattutto se quello era il suo destino). Le eresie pronunciate dai tifosi in quella circostanza arroventano ancora l’aria fiorentina. Rincarate nella dose da quelle proferite al vedere il 10 passare sul groppone di Santiago Silva detto El Tanque.
Ricordi affascinanti come un incubo notturno post prandiale. Quando il 10 finì finalmente sulle spalle di un talento non superlativo ma sicuramente solido come quello di Alberto Aquilani, perfino il Biancone in Piazza Signoria tirò un sospiro di sollievo.
Finito anche il momento di Aquilani, venne quello di Federico Bernardeschi. Federico aveva già fatto vedere di meritarsi quel 10 sulle spalle. Il guaio è che si era nel frattempo anche meritato le quotazioni che un calciomercato sempre più impazzito spara ormai con facilità. E quando sono arrivate le sirene juventine, né la società né il ragazzo hanno saputo resistere.
Perdere bruscamente un altro 10 in direzione Torino bianconera quasi trent’anni dopo Baggio, anche se in modo completamente diverso, è stato un altro brutto colpo per la città. Forse sarebbe il caso di pensare di ritirare davvero quella maglia numero 10.
Non prima di esserci dati un’ultima chance, e soprattutto di averla data a Gaetano Castrovilli, che ha ricevuto la numero 10 questa estate all’avvio della stagione 2020-21 che dovrebbe sancire la sua definitiva consacrazione. Il ragazzo ha talento da vendere e buon carattere. Possa il numero magico su sfondo viola rimanergli sulle spalle per tanti anni a venire.
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