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La partita del secolo

Sul muro esterno del Estadio Azteca di Città del Messico, il più grande impianto sportivo di quel paese ed il terzo in assoluto al mondo per capienza, c’è una targa commemorativa che recita: El Estadio rinde homenaje a las selecciones protagonistas, en el Mundial de 1970, del PARTIDO DEL SIGLO. 17 de junio de 1970. Fu posta dai messicani a perenne ricordo di quella partita che si era giocata in quello stadio in quella data, durante i Mondiali di Calcio che si stavano svolgendo a casa loro. Una partita così bella e avvincente da meritare a detta di tutti coloro che vi assisterono, parti in causa o neutrali, l’appellativo di partido del siglo, game of the century, partita del secolo.

Azteca200617-001Alle due federazioni protagoniste era stata poi consegnata una coppa speciale che riproduceva il motto: Vencido y vencidor siempre con honor. Una delle due squadre – quella che avrebbe disputato la finale del Mundial il giorno 21 contro il Brasile per l’assegnazione definitiva della Coppa Rimet – aveva eliminato nei quarti proprio la squadra di casa. Nel continente americano il campanilismo ha quasi sempre avuto la meglio sulla sportività, ma quella volta lo spettacolo era stato talmente suggestivo da lasciare, fin da subito, traccia e memoria imperiture.

Lo Stadio Azteca dopo la ristrutturazione del 1986

Lo Stadio Azteca dopo la ristrutturazione del 1986

Dopo il Mondiale della swinging London nel 1966, vinto dal team di casa dopo una rocambolesca (e discussa) finale contro la Germania Ovest che sembrò a tratti una riedizione della Battaglia d’Inghilterra combattuta solo vent’anni prima, era difficile trovare una location altrettanto suggestiva per l’edizione successiva. La F.I.F.A. ci riuscì con un colpo di genio. Il C.I.O. aveva assegnato a Città del Messico i Giochi della XIX Olimpiade. Le imprese leggendarie di Bob Beamon con il suo salto in lungo che sarebbe rimasto record per molti decenni a venire, di Tommy Smith che aveva dedicato l’oro nei 200 metri – insieme al connazionale e confratello John Carlos vincitore del bronzo – al Black Power ed alle nascenti Black Panthers, erano state esaltate e tecnicamente favorite dall’altura a cui si svolgevano le gare nell’antico paese degli Aztechi. Ai quali era stato dedicato addirittura lo stadio, originariamente intitolato a Sant’Ursula e poi al presidente della Federcalcio locale Guillermo Canedo. Oltre all’Azteca, la cui ristrutturazione era stata avviata fin dal 1963, molte strutture sportive messicane erano state ammodernate, e allora perché non assegnare a quel paese dopo la XIX Olimpiade anche la IX Coppa Rimet?

Juanito, la mascotte di Mexico 70

Juanito, la mascotte di Mexico 70

Un’ottima idea, che sarebbe stata riproposta tra l’altro per l’assegnazione delle manifestazioni successive a Monaco di Baviera ed alla Germania Ovest. Ma che nel 1968 aveva mostrato tutte le difficoltà di realizzazione tipiche di un paese in sofferta e difficoltosa via di sviluppo. Come il Cile nel 1962, il Messico del ‘68 era un paese alla fame, grazie anche all’accanirsi di terremoti e cataclismi sulla popolazione. Spendere soldi per manifestazioni sportive a buona parte di quella popolazione sembrava un’eresia. Nei tumulti sanguinosi, come quello di Piazza delle Tre Culture, persero la vita molti messicani, e per poco non si unì a loro la nostra Oriana Fallaci, come sempre precipitatasi a dare conto con i suoi reportages dell’ennesimo angolo della Terra in difficoltà.

La Coppa Rimet volò in Messico dall’Inghilterra due anni dopo, quando le cose si erano in qualche modo stabilizzate. Messico e nuvole, la faccia triste dell’America, recitava una canzone che Enzo Jannacci rese celebre proprio nel periodo dei Mondiali di Calcio del 1970. Il paese che condivideva il confine nord con gli Stati Uniti era conosciuto allora praticamente solo a chi aveva nozioni di storia o di letteratura – magari poliziesca – nordamericana. Il Messico fu una scoperta per il mondo, non solo per il nostro paese, e non solo dal punto di vista calcistico. L’edizione del Mundial che vi si disputò dal 31 maggio al 21 giugno 1970 fu comunque memorabile (anche per il suo epilogo), ed anche di contenuto tecnico tra i più elevati dell’intera storia della Coppa del Mondo. Niente poté guastare quella volta la suggestione di una edizione dei Mondiali di Calcio con pochi eguali, tra quelle precedenti e quelle successive.

Era una edizione impronosticabile. Favorito sulla carta il Brasile, per il fatto che schierava in campo undici fuoriclasse, non solo Pelé. Che tuttavia era un po’ in là con gli anni e che non faceva mistero di essere alla sua ultima edizione, dopo quella vinta nel ‘58 in Svezia, quella vista vincere (causa infortunio) nel ‘62 in Cile e quella vista perdere (causa sempre infortunio) in Inghilterra.

Chissà, se il gioco si fosse fatto di nuovo duro, se i giocolieri carioca ce l’avrebbero fatta a riprendersi e a tenersi definitivamente la Coppa Rimet come prevedeva il regolamento. Altrettanto aspirava a fare l’Uruguay, che pure non era più quello del Maracañazo proprio ai danni del Brasile, ma che sembrava promettere sempre di poter ripetere le sorprese del 1930 e del 1950.

I tedeschi avevano una signora squadra, che a Londra quattro anni prima aveva aperto un ciclo e che voleva vendicare il gol fantasma di Hurst e regolare i conti di una vecchia rivalità con gli inglesi che nel dopoguerra ancora si alimentava di vecchi veleni non ancora smaltiti.

Un altro paese che nel dopoguerra non aveva ancora trovato la sua pace era l’Italia. Bicampione del mondo ai tempi del Fascismo, dopo il 1945 il calcio italiano aveva risentito un po’ del clima di tutto il paese, in profonda e apparentemente irrisolvibile crisi di identità e di autostima. Malgrado avessimo fior di giocatori, li mandavamo puntualmente in campo privi della coscienza di sé, prima ancora che di schemi tecnici validi. E rimediavamo magre come quelle del ‘50, ‘54, ‘58, ‘62, fino all’ultima incredibile del ‘66, eliminati dalla Corea del Nord del dentista Pak Doo Ik.

Ferruccio Valcareggi con la più celebre delle staffette azzurre

Ferruccio Valcareggi con la più celebre delle staffette azzurre

Avevamo nei ranghi gente come Rombo di Tuono. Gigi Riva si contendeva con il tedesco Gerd Muller il titolo di miglior attaccante del mondo. Avevamo anche altri fuoriclasse, a cominciare da quel Rivera e quel Mazzola che dovevano fare staffetta perché più di undici in campo non ne potevamo mandare. Ma anche nelle passate edizioni di fuoriclasse ne avevamo avuti, nostrani e naturalizzati. E non era bastato ad evitare cocenti figuracce.

Eravamo la faccia triste del calcio, in quella primavera del 1970 in cui il mondo si apprestava a radunarsi di nuovo per eleggere il suo campione dello sport più seguito. Un paese che non si riprendeva ancora dalle batoste subite a causa del suo mal, e che a scadenze periodiche si ritrovava a piangere se stesso, e non solo nello sport.

Il Mundal 1970 si risolse in una serie di scontri epici tra giganti. I tedeschi ebbero la loro rivincita (altrettanto rocambolesca) sugli inglesi. L’Italia aveva incontrato l’Uruguay nel girone di qualificazione, ma nessuna delle due aveva scoperto le carte. Fu uno dei soliti gironi eliminatori all’italiana, passammo ai quarti per uno striminzito gol segnato in più rispetto agli avversari, dopo prestazioni mediocri contro Israele, Svezia e, appunto, la celeste di Montevideo.

Nei quarti l’Italia affrontò i padroni di casa, dimostrandosi inizialmente disposta all’ennesima figuraccia. Il Messico andò in vantaggio per primo, poi qualcosa dentro gli azzurri si sbloccò. Il tuono di Giggirriva cominciò a rombare. Alla fine fu 4-1, con i tifosi locali che ci applaudirono, perché finalmente gli Azzurri avevano giocato bene e vinto meritatamente. Dall’altra parte del tabellone, il Brasile eliminò il Perù e l’Uruguay la coriacea Unione Sovietica.

Le semifinali quindi proponevano due scontri epocali. I verdeoro avevano da vendicare la beffa di vent’anni prima al Maracaña. dall’altro lato c’era Italia-Germania. Era un inedito, e nessuno poteva allora immaginare che sarebbe diventata una felice tradizione del nostro calcio. Era una partita che assumeva fatalmente significati ben più importanti di quelli sportivi (l’Italia ritornava in una semifinale mondiale dopo qualcosa come 32 anni, con la possibilità di giocarsi la vittoria definitiva della Rimet al pari di Uruguay e Brasile). No, c’era in ballo molto di più.

Dare un senso ad un movimento sportivo che aveva attraversato una lunga crisi, per esempio, estendendo l’euforia ed il miracolo del boom economico anche ai campi da gioco (anche se i nostri club avevano da tempo ricominciato a vincere in Europa e nel mondo). Rialzare la testa come paese, oltre che come selezione nazionale.

Stadio Azteca, 17 giugno 1970

Stadio Azteca, 17 giugno 1970

Ma soprattutto c’erano loro, dall’altra parte della barricata. Loro, la cui lingua stessa, con la sua sonorità aspra e militaresca, evocava immagini che disturbavano, di sofferenze ed orrori senza fine. Da quelli sopportati durante il Risorgimento a quelli della Grande Guerra, fino a quelli soprattutto di quel terribile biennio 1943-45 durante il quale la razza germanica aveva dato il peggio di sé lasciandosi dietro in tutto il nostro paese una scia di sangue e di morte.

Mio padre era solito dire: «E’ concettualmente impossibile avere simpatia per la Germania». Era un sentimento condiviso da tutta la popolazione italiana di allora, almeno quella che aveva l’età sufficiente per ricordare i nostri avversari di quel 17 giugno 1970 non vestiti della divisa bianca della Bundesrepulik von Deutschland ma di quella verde scuro della Wehrmacht o nera delle SS.

Battere i tedeschi avrebbe significato liberarsi di un terrore, di un magone, di una angoscia che risalivano molto indietro, e che non avevano mai sollevato del tutto il loro peso dai nostri petti. La finale del Mundial veniva dopo, adesso c’erano da vendicare Custoza, Caporetto, Sant’Anna di Stazzema e quant’altro. La Germania Ovest aveva già avuto la sua rivincita. Adesso toccava a noi.

I due capitani, Giacinto Facchetti e Bertie Vogts, si scambiano i gagliardetti

I due capitani, Giacinto Facchetti e Bertie Vogts, si scambiano i gagliardetti

La partita del secolo cominciò sotto le nuvole del Messico tra due squadre consapevoli di tutto ciò che c’era in ballo. E sembrò subito mettersi bene per i colori azzurri. All’8° Boninsegna, l’altro poderoso terminale offensivo a fianco di Gigi Riva, segnò il gol del nostro vantaggio, e da quel momento l’angoscia passò nei petti dei tedeschi, che trovarono un muro nei nostri giocatori più resistente di quello di Berlino. Fino al 93°, allorché su una palla giudicata ormai ininfluente si avventò il tedesco d’Italia Schnellinger che mise a segno al volo il più clamoroso dei pareggi.

Le streghe e gli spettri di ogni tipo tornarono a visitare subito i ragazzi di Valcareggi, promettendo un nuovo 8 settembre come quelli dei Mundiales precedenti. La Germania andò addirittura in vantaggio con una autorete sfortunata di Poletti, e sarebbe stata buonanotte Italia se Burgnich non avesse rimesso subito le cose a posto. Poi toccò ai due Rombi di Tuono. Quello italiano alla fine del primo tempo supplementare, con una sterzata delle sue. Quello tedesco al 110° con una zampata delle sue. Riva-Muller 1-1, Italia-Germania 3-3. Albertosi, il nostro portiere, inferocito, avendo piazzato Rivera sul palo lontano e avendo assistito alla goffa e disastrosa scansata di quest’ultimo.

Narra la leggenda che l’abatino (come lo chiamava il mitico Gianni Brera) per sfuggire al suo compagno che minacciava di strozzarlo si gettò in avanti, ma non avendo più fiato rimase indietro rispetto ai compagni che si erano ributtati all’attacco con rabbia, per riagguantare vantaggio e finale. Quello che successe nel minuto seguente è documentato in fotogrammi che sono impressi indelebilmente negli occhi di più di una generazione. Domenghini, che fugge sulla destra seminando i difensori tedeschi con i suoi polmoni d’acciaio, rimette la palla al centro leggermente arretrata. In quel mentre arriva del suo passo proprio lui, Gianni Rivera, che tocca in controtempo spiazzando imparabilmente Sepp Maier.

GianniRivera200617-001

Narra la leggenda di casa mia (ma immagino non sia stata la sola) che nella notte italiana mio padre imitasse il gesto dell’ombrello di Albertone nei Vitelloni, e che il suo orologio da polso volasse nella circostanza fuori di finestra. Ci avevamo sperato tutti, non ci aveva creduto forse nessuno, ma a restare in piedi al fischio finale dell’arbitro Arturo Yamasaki Maldonado (di chiare origini nippo-peruviane) era l’Italia.

4-3, azzurri in finale, apoteosi italiana dopo gli anni bui delle sconfitte, della difficile ricostruzione di una identità morale nazionale, gioia incontenibile dei nostri emigrati malgrado le cacce all’uomo nelle città tedesche, inizio della leggenda nera per i nostri odiatissimi avversari, che li vuole sempre sconfitti dagli Azzurri quando li incontrano in match che contano per qualche titolo (almeno fino agli sciagurati rigori europei del 2016). Fu il giorno dopo che i messicani decisero d’impulso di porre la targa sul muro dello stadio, estasiati per aver ospitato quella che tutti definirono la più bella partita di sempre.

La nostra finale l’avevamo vinta il giorno 17. Il giorno 21 c’era il Brasile, e il destino di una Coppa che andava definitivamente a chi l’avrebbe conquistata per la terza volta. La Rimet era alla fine della sua storia: o Azzurri o Carioca. L’appuntamento per l’Italia era storico, Ferruccio Valcareggi poteva raggiungere Vittorio Pozzo nel pantheon degli eroi sportivi nazionali. Ma i suoi ragazzi erano stanchi, forse psicologicamente scarichi, e di fronte avevano il Brasile forse più forte di sempre, qualcuno dice la squadra più forte di sempre.

Edson Arantes do Nascimento, detto Pelé

Eppure gli azzurri combatterono fino alla fine. Pelé volò in cielo al 15°, ma Boninsegna lo riportò sulla terra al 37°. Nell’intervallo i brasiliani ritornarono negli spogliatoi divorati dalla paura. Sembravamo noi i favoriti a quel punto, da un destino ineluttabile. Ma a 24 minuti dalla fine Gerson trovò un vantaggio funambolico, e la resistenza azzurra si spense lì.

La Rimet sarebbe andata a Rio. Ai nostri eroi, impietosamente, al rientro in patria toccarono i pomodori, come era successo al ritorno dall’Inghilterra o da edizioni precedenti. I tifosi avevano fatto la bocca ad un clamoroso terzo titolo mondiale. Dimenticando momentaneamente tutto quanto fatto fino a lì, a cominciare dall’impresa con i tedeschi e dall’essere arrivati ad un soffio dall’immortalità, dopo decenni di buio.

Ma poi le cose ripresero le giuste proporzioni, ed una targa simile a quella dell’Azteca da più di cinquant’anni adorna ciascuna delle nostre case. Mexico 70, Messico e nuvole, fu per l’Italia ben altro che la sconfitta in finale contro Pelé & C. Fu la rinascita di un paese, prima ancora che di una Nazionale. Fu soprattutto Italia-Germania 4-3. Per chi c’era, e anche per chi ne ha sentito parlare dopo da padri e nonni che per tutta la vita ne avrebbero raccontato infinite volte, con toni epici o trasognati. Una magia che si ripete ancora oggi, cinquant’anni dopo, ogni volta che gli occhi si chiudono e…..

…..ecco gli italiani che battono la palla al centro, Domenghini che fugge sulla destra e rimette al centro…..ed ecco che al limite dell’area arriva Rivera e…….

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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