Il 17 marzo 1861, con legge n. 4761 di iniziativa del governo presieduto dal conte Camillo Benso di Cavour, il parlamento sabaudo riunito a Torino a Palazzo Carignano proclamò la costituzione del Regno d’Italia e l’assunzione da parte di Vittorio Emanuele II di Savoia della corona per sé e per i suoi eredi.
Era l’atto che ratificava il Risorgimento italiano, almeno fin dove era arrivato a quel punto. Un mese prima, il 18 febbraio il parlamento aveva aperto l’Ottava legislatura del Regno di Sardegna, ma fin dal discorso iniziale del suo presidente era chiaro che tutti la consideravano la Prima del nuovo Regno sorto dalla Seconda Guerra di indipendenza.
Alla presenza dei parlamentari eletti in Piemonte, Liguria e Sardegna e di quelli ad essi aggiuntisi per effetto dei plebisciti che si erano tenuti in Emilia-Romagna e Toscana e delle conquiste garibaldine nel Regno delle Due Sicilie e nello Stato della Chiesa (restavano fuori il Lazio e le Tre Venezie), lo speaker della Camera dei Deputati (il Senato allora era di nomina regia, a norma dello Statuto Albertino) aveva dichiarato «Oggi, giorno diciotto del mese di febbraio dell’anno mille ottocento sessant’uno, regnando Vittorio Emanuele II, si apre in Torino il Parlamento Italiano».
Il primo atto significativo del Conte di Cavour nella nuova legislatura nazionale (l’ultimo della sua carriera e della sua stessa vita, ma lui non sapeva ancora che avrebbero avuto entrambe termine di lì a poco, il 10 giugno di quello stesso anno) era stato la presentazione di quell’articolo unico il senso del quale era stato riassunto da un accorato discorso di benvenuto al Sovrano da parte dell’Onorevole Giuseppe Ferrari: «i suffragi di tutto un popolo pongono sul vostro capo benedetto dalla Provvidenza la corona d’Italia».
Se il parlamento si dichiarò italiano azzerando il contatore delle legislature pre-unitarie, il re non fece altrettanto. Vittorio Emanuele ringraziò, si pose in testa quella corona che i suoi avi avevano soltanto potuto sognare, assieme ai suoi nuovi sudditi. Ma rimase il secondo della sua casata, rifiutando di numerarsi come primo d’Italia. Il Regno nasceva dunque con una forte impronta piemontese e savoiarda, che di lì ad un anno avrebbe assunto una connotazione ancora più forte e sinistra con le fucilate dei bersaglieri in risposta a quelle dei briganti nell’ex Regno delle Due Sicilie. La questione meridionale era già cominciata a Bronte durante l’Impresa dei Mille, con il massacro ordinato da Nino Bixio ai danni della popolazione. Il nuovo stato nasceva con due anime che avrebbero dialogato a fatica per tutti i 159 anni successivi.
Fatta l’Italia, come avrebbe detto Giuseppe Mazzini, bisognava fare gli italiani. E dare loro un inno. Per la verità uno ce l’avevano, anche se per lungo tempo sarebbe stato considerato provvisorio. I soldati che agli ordini di Carlo Alberto e sotto l’insegna del tricolore con lo stemma sabaudo avevano passato il Ticino la mattina del 23 marzo 1848 diretti verso Milano che da cinque giornate si era ribellata agli austriaci, fischiettavano la marcetta composta da un giovane patriota genovese, Goffredo Mameli, che l’aveva composta per il centenario della rivolta di Balilla e della cacciata degli austriaci dall’ex Repubblica Marinara.
Mameli sarebbe morto sulle barricate della Repubblica Romana, e non avrebbe avuto la soddisfazione di vedere il proprio inno diventare quello della patria riunificata. E per di più proprio grazie a colui che gli sarebbe stato opposto a lungo nel sentimento dei concittadini. Nel 1862 Giuseppe Verdi compose quello che oggi si chiamerebbe un medley, l’Inno delle Nazioni, mettendo insieme gli inni nazionali dei paesi europei allora esistenti come Stati indipendenti. Accanto a God save the Queen e alla Marseillaise, il compositore di Busseto aveva inserito in rappresentanza della giovanissima Italia proprio l’Inno di Mameli. E questo malgrado lui fosse universalmente riconosciuto come l’autore del massimo capolavoro musicale nazionale, il Va pensiero del Nabucco, che a lungo in molti avrebbero richiesto come inno italiano definitivo. E che lo stesso Verdi aveva composto con malcelato sentimento patriottico, quando ancora la cattività babilonese poteva chiaramente simboleggiare quella italiana sotto l’Austria.
Da gran signore, oltre che da grande musicista qual era, Verdi fece un passo indietro non da poco, regalandoci probabilmente tuttavia l’inno che maggiormente simboleggia e riassume la nostra storia. E che ci sembra giusto riproporre oggi come brano del giorno. Non è la prima volta. Non è mai abbastanza.
Viva l’Italia.
Lascia un commento