Maria de’ Medici (Firenze, 26 aprile 1575 – Colonia, 3 luglio 1642)
La parabola umana di Maria figlia di Francesco I de Medici e della granduchessa Giovanna d’Austria non si sarebbe conclusa nel 1642 soltanto per se stessa, ma anche in quanto ultimo atto di una grande storia: quella della sua famiglia che partendo da un modesto banco dei pegni aperto a Firenze da ex agricoltori e allevatori mugellani aveva consegnato Firenze non tanto alla storia quanto alla leggenda del Rinascimento. Ed era arrivata sul punto di determinare il destino dell’Europa rivaleggiando da pari a pari con dinastie quali Asburgo, Valois, Borbone.
Con Maria si chiuse in sostanza la grande storia dei Medici. E della loro irresistibile per quanto accidentata ascesa tra le teste coronate di un mondo che aveva riscoperto che l’arte, la cultura, il denaro ben speso vincono le guerre e conquistano i regni al pari delle armi.
Per tutto il Quattrocento Firenze aveva finanziato la storia d’Europa, fino al Magnifico Lorenzo. Nel Cinquecento aveva dovuto scegliere: potentati militari più forti si contendevano l’Italia, il vecchio banco non bastava più alla famiglia dei mecenati ad assicurare l’avvenire per sé e per la città. Serviva una corona, e scegliendo Carlo V e la Spagna l’improbabile erede del ramo popolano della dinastia era riuscito ad entrare nel grande giro. Cosimo I il Granduca non eguagliava forse come fascino né Cosimo il Vecchio né Lorenzo il Magnifico, ma assicurava alla dinastia il futuro.
Per tutto il periodo aureo, non si era fatta fortuna in casa Medici se non quando a grandi uomini si erano affiancate grandi donne. A metà del Cinquecento, il destino aveva scompigliato le carte e proposto uno dei suoi paradossi.
I Medici si ritrovarono sul punto di apporre una D maiuscola su quella parola, destino, grazie a due donne. Caterina prima e Maria poi salirono sul trono di Francia, il paese più vicino culturalmente alla loro patria italiana, ma quello che politicamente peggio sopportava una signoria italiana.
La bisnipote del Magnifico, Caterina, era andata in sposa a Enrico II di Valois, erede al trono di Francesco I, colui che al cospetto di Carlo V di Spagna aveva perduto tutto fuorché l’onore. La Francia che accoglieva la prima delle regine italiane era un paese in ginocchio, stretto nella morsa tra gli Asburgo spagnoli e quelli austriaci. Caterina era stata una grande regina, colei che aveva ricostruito le fondamenta della futura potenza francese e gettato le basi della revanche. Ma aveva avuto il torto, o per meglio dire la sfortuna, di restare vedova ben presto a causa della fatuità di un marito che le aveva comunque lasciato tre figli, grazie ai quali poté continuare a sedere sul trono come reggente fino alla sua morte, avvenuta nel 1589.
Non di bellissimo aspetto come del resto la sua coetanea e dirimpettaia Elisabetta d’Inghilterra, al pari di lei esercitò tuttavia un carisma che poche regine hanno avuto nella storia. Ma aveva avuto l’ulteriore sfortuna di ereditare dal marito un paese diviso tra cattolici e protestanti. La leggenda nera vuole che sia sua responsabilità la Notte di San Bartolomeo, la celebre strage degli Ugonotti destinata ad avvelenare ulteriormente la politica francese, stretta all’estero tra i due scomodi vicini spagnolo e austriaco, e tra partigiani del Papa e partigiani di Calvino all’interno.
Quando Enrico III di Francia, l’ultimo suo figlio sopravvissutole, cadde vittima di una delle tante vendette cattoliche o ugonotte, il suo successore più prossimo era un protestante, Enrico di Navarra del ramo cadetto dei Borbone. A lui toccava Parigi, soprattutto allorché riconobbe che valeva bene una messa, abiurando al protestantesimo. A lui andò in sposa un’altra rampolla della casata dei Medici, che per quanto avesse chiuso ufficialmente il banco ormai dai tempi di Piero il fatuo era ancora creditrice della maggior parte delle corone europee, compresa quella francese. Maria pagava un debito ingente, contratto dal paese che da più di un secolo sperperava la sua ricchezza nel tentativo di conquistare l’Italia.
Maria aveva trascorso un’infanzia triste a Palazzo Pitti, orfana di madre già a cinque anni e probabilmente in pessimi rapporti con la nuova favorita del padre, la chiacchieratissima Bianca Cappello. Era cresciuta come una ragazza solitaria, graziosa e molto pia. Caratteristiche queste ultime due che era destinata a perdere nel corso della sua vita, mantenendo soltanto la solitudine.
Enrico IV di Francia la sposò per procura, e cominciò a cornificarla il giorno dopo il matrimonio, secondo il proprio temperamento. Maria soffrì molto gli adulteri del marito, personaggio strano che in punto di morte l’avrebbe gratificata della più insolita delle dichiarazioni d’amore: «Se non foste mia moglie avrei dato tutti miei beni per avervi come amante».
La morte era giunta presto per Enrico IV, assassinato dal fanatico cattolico Ravaillac che non aveva creduto, come molti altri suoi connazionali, alla conversione dell’ex duca di Navarra. E di colpo Maria si era trovata nelle stesse condizioni della prozia Caterina, reggente di un regno a cui ambivano molti, troppi. La seconda italiana sul trono di Saint Denis, che sarebbe stata detestata dai francesi ancora più della prima, e non del tutto per colpa sua.
A Parigi, Maria si era portata il favorito Concino Concini, discendente di una famiglia con quarti di nobiltà superiori non solo ai Medici ma anche ai Valois, ai Borbone e a qualunque altra famiglia nobile francese o europea. Il Concini era il prototipo del cortigiano che aveva fatto la fortuna degli scritti di Machiavelli e Guicciardini. I nostri cugini ,d’altro canto, tolleravano volentieri i maestri di palazzo loro connazionali, ma non quelli d’Oltralpe.
Credendo di acquisire meriti presso i suoi sudditi, l’imbelle e ancora minorenne Luigi XIII – in nome di cui Maria de Medici a quel punto governava – fece eliminare il Concini. Ma era già troppo tardi. Il cortigiano italiano aveva favorito l’ascesa del suo successore francese, il cardinale Jean Armand du Plessis, che la storia avrebbe conosciuto come cardinale Richelieu. Il quale ebbe fin da subito chiara la propria linea politica completamente opposta a quella della Corona. A parlare in nome della quale la reggente Maria fu esautorata l’anno successivo a quello dell’assassinio di Concini.
Negli anni successivi, Maria fu riabilitata dal figlio Luigi e riammessa addirittura al Consiglio di Stato. Ma era tardi, nello stesso anno in cui ciò succedeva altri eventi destinati ad avere grandi conseguenze maturavano. Ce li ha raccontati un giovane romanziere del periodo romantico ottocentesco:
«Il primo lunedì del mese d’aprile 1625 il borgo di Méung ove nacque l’autore del Romanzo della Rosa, sembrava esser in una così completa rivoluzione, come se gli ugonotti vi fossero venuti a fare una seconda Rochelle. Molti borghigiani vedendo correre le donne lungo la strada maestra, sentendo i fanciulli gridare sul limitare delle porte, si sollecitavano ad indossare la corazza, equilibrando il loro portamento alquanto incerto col mezzo di un moschetto o di una partigiana, o dirigendosi verso l’osteria del Franc-Meunier, davanti alla quale si affrettava ed ingrossava di minuto in minuto, un gruppo compatto, rumoroso e pieno di curiosità.
In quei tempi i timori panici erano frequenti, e pochi erano quei giorni che passavansi senza che una città o l’altra non registrasse nei suoi archivj qualche avvenimento di questo genere. Vi erano i signori che guerreggiavano fra di loro; v’era il re che faceva la guerra al suo ministro; vi era la Spagna che faceva la guerra al re. Quindi, oltre a queste guerre sorde o pubbliche, secrete o patenti vi erano ancora i ladri, i [6] mendicanti, gli ugonotti, i lupi ed i lacchè che facevano la guerra a tutti, spesso contro i signori e gli ugonotti, qualche volta contro il re, ma mai contro il ministro e lo spagnuolo. Ne resultò dunque da questa presa abitudine, che nel suddetto lunedì del mese d’aprile 1625, i borghigiani sentendo il rumore, e non vedendo nè la banderuola gialla e rossa, nè la livrea del duca di Richelieu si precipitarono dalla parte dell’albergo del Franc-Meunier.
Là giunto, ciascuno potè vedere e riconoscere la causa di questo rumore.
Un giovane…»
Chi ha riconosciuto l’incipit dei Tre Moschettieri di Alexandre Dumas, sa che quel giovane era il cadetto D’Artagnan, diretto a Parigi per essere arruolato nei moschettieri del Re e da lì in poi contrastare le mire del perfido cardinale, a difesa dell’onore di una regina che a quel punto non era più Maria de Medici, ma Anna d’Austria. La moglie, altrettanto infelice della suocera, che l’omosessuale Luigi XIII non avrebbe mai voluto sposare. La Francia che si preparava a combattere la Guerra dei Trent’Anni e a porre fine al predominio spagnolo in Europa non era più il paese che Maria avrebbe potuto governare, ne il quadro politico europeo era più quello in cui i Medici avrebbero potuto ancora dire la loro.
La sfortunata storia di Maria era destinata a concludersi riservandole un ultimo paradosso. La sua bellezza era sfiorita da tempo, e così la sua abilità nel destreggiarsi tra corti più o meno ostili. Ma mentre l’Europa cattolica si sottometteva allaControriforma e a Firenze ormai regnavano l’Inquisizione ed il conformismo più bigotto e le preghiere sostituivano i versi dei poeti e le pennellate dei pittori (non diversamente da una Parigi dove Richelieu aveva portato definitivamente al trionfo la repressione anti-ugonotta) all’ultima regina di casa Medici il destino assegnava un crepuscolo dell’esistenza da bohemienne ante litteram.
Sembra infatti che gli ultimi anni di vita li trascorresse a casa del pittore Peter Paul Rubens, il più grande artista dell’epoca del Barocco. Colui stesso che in giorni meno tristi l’aveva ritratta nel momento della sua ascesa al trono come regina di Francia.
E infine morì, dimenticata da tutti di qua e di là dalle Alpi, senz’aspettar che tornasse un dolce tempo che per il nome che portava e per coloro che lo veneravano e l’avrebbero venerato nei secoli a venire, in verità non sarebbe tornato mai più.
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