1964, l’Italia vive i primi difficili anni del Centrosinistra al governo e della controversa Presidenza della Repubblica di Antonio Segni, democristiano di destra e capofila di quanti non vedono di buon occhio l’apertura al Partito Socialista pur nel clima di distensione internazionale. Nel momento della crisi del governo Moro, si diffonde la voce di oscure manovre da parte dei vertici del SIFAR, il servizio segreto dell’Esercito guidato dal generale Giovanni De Lorenzo, tendenti all’attuazione di un vero e proprio colpo di stato, con l’arresto dei principali uomini politici della sinistra (di governo e di opposizione) e l’instaurazione di un regime di polizia controllato dall’Arma dei Carabinieri.
Queste manovre, sempre secondo le voci, avrebbero l’appoggio proprio del Presidente Segni, che viene colto da un malore durante un drammatico colloquio con Moro e Saragat, saliti a chiedere conto degli sviluppi della crisi di governo e del tintinnar di sciabole che si avverte in sottofondo. Segni viene sostituito proprio da Saragat, Moro forma un nuovo governo di centrosinistra più annacquato, De Lorenzo si dimette dal SIFAR per andare a ricoprire la carica di Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, si continua a vociferare di un tentato golpe ma di leggende a Roma ne circolano talmente tante che è difficile dire se questa è fondata o no.
1967, il settimanale L’Espresso inizia la pubblicazione di una serie di articoli che raccontano la storia del Piano Solo, il colpo di stato che De Lorenzo sarebbe veramente stato sul punto di mettere in atto nell’estate di tre anni prima con il presunto beneplacito di varie figure istituzionali tra cui l’ex Presidente della Repubblica. Gli articoli sono firmati da due giornalisti fino a quel momento sconosciuti ai più, Eugenio Scalfari (già direttore del periodico dopo l’abbandono del fondatore Adriano Olivetti) e Raffaele Jannuzzi detto Lino.
Il dossier sul Piano Solo proviene dal KGB, che era al corrente dell’operazione fin dai giorni delle sciabole tintinnanti. De Lorenzo querela i giornalisti, che vengono processati sulla base di documenti nel frattempo secretati dal governo italiano. Malgrado il pubblico ministero Vittorio Occorsio (il giudice che verrà poi ucciso negli anni settanta da Ordine Nuovo di Pierluigi Concutelli, mistero che si aggiunge a mistero) abbia potuto leggere tutte le carte prima dell’apposizione degli omissis e abbia chiesto l’assoluzione dei due giornalisti, essi vengono condannati per diffamazione a mezzo stampa e si salvano dal carcere soltanto perché nel 1968 ci sono le elezioni politiche ed il lungimirante Pietro Nenni, segretario del P.S.I., ha offerto loro una candidatura al Parlamento.
Comincia così la carriera di Eugenio Scalfari, nato a Civitavecchia il 6 aprile 1924 e venuto a mancare ieri a Roma all’età di 98 anni. L’ultimo dei grandi vecchi, dei padri storici del giornalismo italiano. Scalfari, dopo la parentesi giudizial – parlamentare conclusasi nel 1972, avrebbe legato il suo nome ad un’altra impresa giornalistica editoriale: la fondazione di Repubblica, quotidiano nazionale destinato a rivoluzionare per sempre il panorama della stampa italiana.
Uomo di sinistra dichiarato, al punto da legare il proprio nome addirittura ad alcune iniziative non sempre felici come la presa di posizione pubblica contro il commissario Luigi Calabresi assassinato poi nel maggio 1972 dai terroristi di Lotta Continua, Scalfari era tuttavia soprattutto un giornalista di razza. Lasciato L’Espresso all’atto dell’elezione al parlamento nl 1968, nei primi anni 70 aveva offerto ad un altro giornalista di statura pari alla sua ma di orientamento politico diametralmente opposto di fondare insieme un quotidiano che se avesse visto la luce sarebbe stato probabilmente un esperimento unico e clamoroso. Indro Montanelli, transfuga dal Corriere della Sera, ringraziò e declinò cortesemente l’offerta, giudicandola un tantino azzardata.
Così, il 14 gennaio 1976 fece la sua comparsa nelle edicole un progetto altrettanto clamoroso, anche se decisamente meno eretico.
Repubblica era figlia di Scalfari e del Gruppo Editoriale L’Espresso da cui proveniva lui stesso. Nell’albero genealogico era presente alla nascita il Gruppo Editoriale Arnoldo Mondadori (non ancora gravitato nell’orbita berlusconiana) e si sarebbe aggiunto di lì a poco l’imprenditore Carlo De Benedetti, notoriamente uomo anch’egli legato alla sinistra ed all’epoca legato al Gruppo Olivetti.
Da lì in poi, è storia del giornalismo italiano, oltre che della stessa Italia. Repubblica presentò un modo di fare giornalismo e addirittura di impaginarlo del tutto nuovi (fu la prima a importare in Italia il formato tabloid, insieme a Paese Sera), rompendo tradizioni e stilemi quasi secolari che il mondo della carta stampata giudicava intoccabili fino a quel momento. Schierata a fianco di una sinistra progressista non sempre ben individuabile e/o condivisibile (Scalfari avrebbe patrocinato con disinvoltura il Berlinguer che in quell’anno di fondazione 1976 sfiorò la vittoria alle elezioni politiche, poi avrebbe amato/odiato il Craxi socialista che aveva messo in crisi quel risultato rompendo con gli ex cugini del P:C:I., poi addirittura avrebbe flirtato con quel Ciriaco de Mita che rappresentava il tentativo della democrazia Cristiana di dire qualcosa di sinistra, senza avere la minima intenzione poi di farlo), Repubblica si sarebbe dibattuta perennemente tra queste due anime: quella intellettuale critica e quella di cercatrice di padri nobili politici fin oltre la durata della stessa direzione di Eugenio Scalfari, terminata nel 1996 a vent’anni esatti dal suo inizio.
Eugenio Scalfari è stato un grande giornalista con l’hobby del talent scouting, in un paese che di talenti ne ha pochi e se li ha non li manda volentieri a fare politica. E’ sempre stato intellettualmente spregiudicato nelle sue visioni politiche, ultima in ordine di tempo la sponsorizzazione di una alleanza non tanto futura ed anch’essa decisamente eretica tra i due Matteo, Renzi e Salvini.
Ai posteri l’ardua sentenza. Ad Eugenio Scalfari il riconoscimento di aver fatto oltre che scritto la storia di questo paese. Senza Repubblica, la Repubblica degli anni in cui fuggivamo tutti dagli altri quotidiani di gran nome o dagli organi ufficiali di questo o quel partito, divenuti ormai moralmente prima ancora che letterariamente illeggibili, avremmo avuto tutta un’altra storia, soprattutto nel ventennio settanta-ottanta.
Senza Eugenio Scalfari, così come senza gli altri cavalli di razza del nostro giornalismo con cui ha duettato e duellato intellettualmente per tutta la vita, avremmo forse adesso gli stessi politici che ci ritroviamo, ma ne sapremmo e ne capiremmo molto meno.
De mortuis nihil nisi bonum, dice un vecchio adagio latino. Dei morti non si parla che bene. Abbiamo smesso da anni di leggere Repubblica, ingessata dalla apparentemente asettica e scolastica direzione di Ezio Mauro e scivolata infine nella cialtroneria di quella di Mario Calabresi, il figlio del commissario che Scalfari si era poi pentito di avere pubblicamente criticato, prima che Lotta Continua facesse il suo corso.
Ma avremo sempre una grande nostalgia per la Repubblica di Eugenio Scalfari, che in una lontana stagione di tanti anni fa ci illuse almeno di aver trovato anche noi il nostro Washington Post.
A Eugenio Scalfari auguriamo l’eterno riposo che ha sicuramente meritato, e che magari da stamani gli ha chiarito tutti i dubbi da lui sollevati – letterariamente e filosoficamente parlando – con le sue ultime opere. Se c’è un Dio, adesso Scalfari lo sa, e magari adesso è con lui a spiegargli che questa sua creatura Italia non è poi venuta così male, e può ancora farcela a salvarsi.
Come gli fa dire Paolo Sorrentino nel film Il Divo: «allora Senatore Andreotti, le chiedo: tutte queste coincidenze sono frutto del caso o della volontà di Dio?»
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