Nella foto: Violante Beatrice di Baviera (Monaco di Baviera, 23 gennaio 1673 – Firenze, 30 maggio 1731)
Era stata dapprima una storia di uomini, duri, ambiziosi, talvolta spregiudicati. A loro modo di talento, prima nel far soldi e poi nel comprarci il mondo, ma lasciandoselo dietro sempre e comunque migliore. Poi, quando il gioco da duro si era fatto durissimo, erano scese in campo le donne. Alcune delle quali capaci di eguagliare se non superare per intelletto e doti caratteriali mariti, fratelli, padri, amanti.
La storia dei Medici signori di Firenze aveva attraversato tre secoli. Il Quattrocento era stato il secolo dell’ascesa e dello splendore. Il Cinquecento era stato il secolo del Granducato e della dimensione non più cittadina ma regionale. Il Seicento era stato il secolo del lento declino, del conformismo della Controriforma che chiudeva l’epopea geniale del Rinascimento.
Il Settecento per la famiglia che dal Mugello era scesa in città diventando famosa e potente tanto da far parlare di sé per il tempo a venire tutto il mondo, era il secolo degli sgoccioli. I Medici non erano più splendidi signori, né abili banchieri o ammirati condottieri. Erano mezze figure, bigotti, debosciati, affetti da malattie varie (talune innominabili) che avevano sostituito l’originario male di famiglia, la gotta.
L’Impero Asburgico aveva conferito loro il titolo granducale, l’Impero si preparava a riprenderselo, trasferendolo ad un nuovo signore, il duca di Lorena, non appena fosse stata sanzionata definitivamente la mancanza di eredi e la fine della dinastia che aveva fatto grande, leggendario il nome di Firenze. Francesco Stefano di Lorena avrebbe sposato l’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, ed in dote avrebbe avuto la Toscana.
Restavano appunto gli sgoccioli di quel lento, agonizzante declino. E toccò a due donne portarlo a termine insieme alle proprie esistenze terrene. Concludere con dignità adeguata al nome che portavano la grande storia dei Medici.
Il Seicento si era chiuso con i tentativi disperati ed a volte decisamente ridicoli del granduca Cosimo III per assicurare un matrimonio adeguato ai figli ed un erede al casato. Quei figli su cui Cosimo e Firenze riponevano le loro speranze erano Ferdinando, che avrebbe dovuto ereditare la corona granducale come il terzo del suo nome, Anna Maria Luisa e Gian Gastone. Per tutti e tre Cosimo attinse al bacino tedesco. Anna Maria andò in sposa a Giovanni Guglielmo Elettore del Palatinato. Ferdinando ebbe Violante Beatrix Wittelsbach principessa di Baviera. A Gian Gastone fu destinata la principessa di Sassonia-Lauenburg Anna Maria Francesca. Tre matrimoni apparentemente di prestigio, in realtà altrettanti disastri.
Ferdinando il maggiore era sifilitico, oltre che probabilmente bisessuale. Morì senza eredi nel 1713, dieci anni prima del padre. Anna Maria Luisa non ebbe miglior sorte, con un marito a sua volta sifilitico, ed abortì nell’unica occasione in cui era rimasta incinta. Gian Gastone, platealmente omosessuale, non fece alcun tentativo di consumare il matrimonio. Toccò a lui la corona granducale, nel 1723, e fu il certificato di morte per la dinastia dei Medici.
Palazzo Pitti divenne teatro di decadenza e sconcezza senza più limiti, con i ruspanti – così erano nominati i favoriti e gli amanti del Granduca – che imperversavano come avevano fatto i Proci ad Itaca prima del ritorno di Ulisse. Finché, nel 1737, il cielo si decise a richiamare a sé l’ultimo discendente maschio di quella che una volta era stata la casata più gloriosa tra tutte quelle che avevano regnato sotto il cielo d’Italia.
A quel punto, il titolo passava a Francesco di Lorena, nel frattempo divenuto principe consorte di Maria Teresa d’Austria. Per tutto il periodo della oscena decadenza ed agonia di Gian Gastone, due donne avevano mantenuto il centro della scena distogliendo l’attenzione dalle orge e dai festini di Palazzo Pitti. Anna Maria Luisa Elettrice del Palatinato, che avrebbe rifiutato la reggenza in nome del Lorena preferendo stipulare quel patto di famiglia che avrebbe salvato le opere d’arte accumulate a Firenze dalla sua famiglia stessa per ben tre secoli, e Violante di baviera, la vedova dell’ultimo Ferdinando, che aveva accettato il governatorato di Siena pur mantenendo i suoi legami con Firenze.
Non era un compito facile. Siena era stata l’ultima delle repubbliche toscane a sottomettersi al ducato mediceo, nel 1559, e da allora aveva sopportato la signoria fiorentina a collo piuttosto torto, sognando un improbabile riedizione della battaglia di Montaperti. Violante riuscì a farsi rispettare dai senesi, soprattutto perché fece loro dono della riorganizzazione in forma definitiva e moderna di ciò che di più antico avevano e che stava loro più a cuore: la carriera del Palio. Se ad Anna Maria Luisa l’umanità deve l’eredità della capitale mondiale dell’arte, Firenze, a Violante deve la perpetuazione della più straordinaria, nobile, drammatica, irripetibile leggenda medioevale: Siena.
Violante dette un regolamento al Palio, che fino a quel momento aveva vissuto di norme episodiche, volatili, un misto di regolamenti di gilde medioevali e di soprusi derivanti dalla occasionale legge del più forte. Violante riorganizzò dapprima il centro cittadino nei tre Terzi che perdurano a tutt’oggi, e poi le contrade, codificate in numero di diciassette e con i confini territoriali che conosciamo ai giorni nostri. Stabilì che date le misure della Piazza del Campo fossero soltanto in dieci a correre di volta in volta, con il caratteristico sistema del sorteggio e della precedenza a chi non aveva corso nell’edizione precedente. Stabilì le due date in cui si correva annualmente, le due Madonne, quella di Provenzano e quella dell’Assunta. Stabilì organizzazione e svolgimento del corteo storico, della corsa (fissata già da allora in tre giri con partenza e arrivo sotto il palco del mossiere). Stabilì i termini ed i modi in cui la forza pubblica poteva intervenire in Piazza, a sedare eventuali degenerazioni eccessive dei diverbi tra contradaioli, e solo in quei casi.
Il Palio che vediamo correre tutt’oggi nella Piazza del Campo da cavalli e fantini con i variopinti colori e le coccarde delle contrade di Siena è quello bandito nel 1727 da Violante Beatrice di baviera. La Toscana deve alcuni dei principali gioielli con cui si presenta tutt’ora ad un mondo che non cessa di ammirarla a queste due donne, Anna Maria Luisa e sua cognata Violante.
La principessa di Baviera ebbe solo un torto per i senesi, i suoi frequenti ritorni in una Firenze da cui non aveva saputo mai veramente distaccarsi. Questo fece sì che le esequie tributatele dalla città del Palio dopo la sua morte, il 30 maggio 1731, fossero rispettose ma alla fine non troppo sentite.
Violante Beatrix von Wittelsbach è sepolta secondo le sue ultime volontà a Firenze nella cripta della chiesa di Santa Teresa nel convento delle Carmelitane scalze a Borgo La Croce, dove era solita recarsi per i suoi esercizi spirituali. Per sua espressa volontà testamentaria, il cuore le fu espiantato e deposto nella tomba del marito, il principe Ferdinando, nelle Cappelle Medicee. A testimonianza di quanto gli era rimasta devota nonostante l’infelicità del loro matrimonio.
Sopravvissuta anche alla furia iconoclasta delle guerre napoleoniche, l’unica donna che nella loro lunga storia abbia saputo mettere d’accordo Firenze e Siena riposa lì a tutt’oggi, e per sempre.
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