I ragazzi di Busby
Una vita da appassionati il calcio, una vita trascorsa tra due tragedie: il Grande Torino e la Chapecoense. Tra il 4 maggio 1949 ed il 28 novembre 2016, in mezzo c’é un’altra data. Il 6 febbraio 1958 toccò all’Inghilterra piangere quella che prometteva di diventare la sua più grande squadra, se non lo era già.
Il Manchester United – i Busby Babes, come venivano chiamati affettuosamente dai tifosi i suoi giocatori, dal nome dell’allenatore che li aveva cresciuti e portati in prima squadra, Matt Busby – era un frequentatore fisso delle fasi finali della neonata Coppa dei Campioni, l’odierna Champion’s League. L’anno prima si era fermato in semifinale, eliminato dal Real Madrid che poi avrebbe vinto la finale contro la Fiorentina.
Nel 1958, i ragazzi di Busby erano favoriti d’obbligo, e lo stavano confermando. Nel match di ritorno dei quarti a Belgrado contro la Stella Rossa avevano pareggiato 3 -3, qualificandosi nuovamente alle semifinali dopo il 2- 1 dell’andata all’Old Trafford.
Non era destino che giocassero quelle semifinali. Il volo charter della British European Airways (BEA), un Airspeed Ambassador matricola G-ALZU, che doveva riportarli a Manchester, decollò da Belgrado in ritardo per problemi burocratici e fece uno scalo tecnico a Monaco di Baviera per rifornimento di carburante.
Le condizioni dell’aeroporto bavarese non erano ottimali, a causa della neve ghiacciata che si era depositata su diverse delle sue piste, compresa quella che fu utilizzata dall’Airspeed britannico per il decollo. Dopo due tentativi infruttuosi, al terzo il velivolo perse velocità proprio nel momento i sollevarsi dal suolo, non riuscendoci e finendo contro le recinzioni dell’aeroporto ed alcuni edifici in uno dei quali era stipato del carburante, che esplose non appena investito dalle fiamme provocate dalla perdita di un ala del charter.
Quella volta, non essendo avvenuto il disastro durante il volo ma nelle fasi di decollo, ci furono dei superstiti. Dei 44 passeggeri, tra giocatori, tifosi e giornalisti a bordo, ne morirono soltanto 23, di cui otto titolari della squadra. Matt Busby sopravvisse a molti dei suoi ragazzi, insieme al predestinato Bobby Charlton, allora giovane promessa del calcio inglese e destinato a diventarne una leggenda.
Tra i sopravvissuti, anche il comandante dell’equipaggio James Thain, lui invece destinato a fare da capro espiatorio della tragedia. Come succede in ogni disgrazia di terra, del mare e dell’aria, compagnie e autorità fanno volentieri a scarico di responsabilità. Le autorità aeroportuali tedesche incolparono Thain di non aver sbrinato le ali dell’aereo prima di decollare. La BEA in un primo tempo si adeguò, salvo poi condurre indagini più approfondite dalle quali emerse una responsabilità di chi aveva invece lasciato la pista innevata. Una circostanza letale per velivoli di quella stazza, incapaci di raggiungere la velocità necessaria al decollo. Una circostanza probabilmente sottovalutata in un’epoca ancora pionieristica per i voli charter.
James Thain fu alla fine assolto, ma soltanto dieci anni dopo, guarda caso in quel 1968 in cui lo United vinse quella Coppa dei Campioni per conquistare la quale si era alzato in volo quella lontana mattina nel gelido inverno bavarese. Busby e Charlton alzarono il trofeo denominato la Coppa con le orecchie anche a nome e per conto di quei compagni che non potevano più farlo. I ragazzi di Busby, rimasti ragazzi per sempre.
Thain invece non avrebbe più volato. Per quanto scagionato, non fu mai riassunto dalla sua compagnia e si ritirò a fare l’agricoltore. Il suo cuore ebbe un cedimento strutturale nel 1975, un anno dopo che la BEA si era unita British Overseas Airways Corporation per fondare quella che oggi conosciamo come la British Airways.
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