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Le Idi di Marzo

Nel film di Joseph L. Mankiewicz del 1953, Giulio Cesare interpretato da Louis Calhern sta per ricevere la prima coltellata

Nei pressi dell’ingresso del Senato gli si era fatto incontro un aruspice, un indovino di strada che sfruttando una consuetudine, una passione popolare in voga tra i Romani, prediceva il futuro a buon mercato. A conferma di numerosi infausti presagi succedutisi negli ultimi giorni, l’aruspice Spurinna lo apostrofò: «Guardati dalle Idi di marzo, o Cesare».

L’uomo che aveva il mondo ai suoi piedi gli rispose beffardo che le Idi erano arrivate, e lui era vivo e vegeto. L’aruspice gli ribatté, in modo sinistro: «Le Idi non sono ancora passate».

Le Idi, nel calendario che lo stesso Caio Giulio Cesare aveva riorganizzato da poco in qualità di Pontefice Massimo (addetto alle celebrazioni pubbliche, religiose e laiche, a Roma e nel territorio a lei soggetto), corrispondevano al giorno 15 di ogni mese. Una data importante, fatidica per tradizione. La data in cui, ma questo Cesare non poteva ancora saperlo, era stata organizzata la congiura che doveva mettere fine alla sua vita ed al suo cursus honorum, entrambi straordinari.

Quel giorno, narra la leggenda – e secondo qualcuno anche la storia – che Cesare si stesse recando al Senato per chiedere la trasformazione della sua dittatura in magistratura permanente. Dictator era un incarico temporaneo, strettamente legato nell’entità e nella durata del potere concesso ad uno stato di guerra, interno o esterno. Dai tempi di Annibale, i Romani nominavano comandanti militari con poteri speciali in caso di emergenza, poteri che venivano restituiti alla Repubblica, al Senato ed al popolo Romano, all’esaurirsi dell’emergenza stessa.

Le conquiste territoriali di Giulio Cesare

Le conquiste territoriali di Giulio Cesare

Dopo decenni di sconvolgimenti, per le guerre civili e per le guerre di conquista che lo stesso Cesare aveva condotto dando il primo impulso a quello che sarebbe diventato l’Imperium, il dominio di Roma sul mondo allora conosciuto, era chiaro a tutti che la vecchia Repubblica aveva in qualche modo fatto il suo tempo. Il glorioso Senato sorto dalla cacciata dei re etruschi nel 509 a. C. aveva tenuto testa a Cartagine, ai Galli, agli Egizi, ai Parti e a tutti i nemici ed ai vicini vinti, conquistati e sottomessi fino a quel momento, ma ormai urgeva un nuovo assetto di potere in grado di far fronte tempestivamente ed efficacemente a minacce sempre più frequenti e a territori sempre più estesi da amministrare.

Giulio Cesare era visto da certi ambienti della nobiltà e dell’alta borghesia come colui che poteva mettere fine ad una forma di governo a cui gli Antichi Romani erano affezionati, orgogliosamente legati. Era il tiranno, ma non nel senso greco della parola (equivalente al latino dictator), bensì nel senso che avrebbe avuto la parola nei secoli a venire, dopo di lui. Paradossalmente, ma neanche tanto, i suoi avversari – i restauratori della Repubblica – erano tutti patrizi, la classe nobiliare e più agiata. A cominciare da quel Marco Bruto (discendente del Bruto che aveva cacciato Tarquinio il Superbo, l’ultimo re etrusco, ed instaurato la Repubblica) che nonostante fosse stato adottato come un figlio legittimo da Cesare, lo detestava e lo vedeva come il fumo negli occhi, ammantando di giustificazioni politiche le sue motivazioni psicologiche.

Il celebre discorso di Marco Antonio (interpretato da Marlon Brando) sul cadavere di cesare, sotto la statua di Pompeo

Il celebre discorso di Marco Antonio (interpretato da Marlon Brando) sul cadavere di Cesare, sotto la statua di Pompeo

Sobillato dall’amico Caio Cassio, un patrizio che come lui si sentiva amico del popolo, Bruto percepiva se stesso come un vero democraticoAl punto da armare la mano propria e di quelli della sua cerchia contro il suo stesso padreUn paradosso che duemila anni più tardi, nel quartiere dell’Urbe denominato Valle Giulia, Pier Paolo Pasolini avrebbe degnamente e sagacemente fotografato, individuando i veri proletari nelle forze dell’ordine e nei figli di papà invece che si opponevano loro frontalmente i rivoluzionari con il pranzo già servito a tavola.

Giulio Cesare era già considerato ai suoi tempi ciò che sarebbe stato considerato nei secoli a venire. Un gigantesco archetipo nella storia dell’umanità, l’uomo più grande dell’Antichità e uno dei più grandi in assoluto di tutti i tempi. Un genio politico, militare, culturale. Un uomo del destino, un predestinato, che il destino volle far nascere proprio quando la Repubblica Romana entrava in crisi, e quando i di lui enormi talenti potevano far prendere alla storia di lei qualunque direzione.

Non sapremo mai esattamente cosa avrebbe chiesto Cesare al Senato romano quella mattina delle Idi del mese dedicato al Dio Marte, in cui uscì di casa malgrado la moglie Calpurnia lo scongiurasse di dare ascolto ai pessimi auspici e di rimanere con lei. I democratici, che allora come adesso vivevano, pensavano, agivano al di sopra del popolo in nome del quale dicevano di lottare, erano convinti che egli avrebbe ucciso la democrazia, reclamando per sé ciò che – ironia di una sorte da loro stessi cercata – avrebbe avuto facilmente il successore di lui, Ottaviano Augusto: il titolo di Imperator.

La statua di Giulio Cesare ai Fori Imperiali a Roma

La statua di Giulio Cesare ai Fori Imperiali a Roma

Gli storici propendono invece per una versione più sfumata, equilibrata. Cesare era un Romano vero, e come tale affezionato alle istituzioni repubblicane. Aveva vissuto nel loro momento più critico, e quindi – consapevole del proprio genio e del proprio carisma, sia tra le Legioni in armi che tra la Plebe cittadina, entrambe le quali lo adoravano – non doveva certamente dispiacergli di ritagliarsi un ruolo di Salvatore della Patria. Una specie di Lord Protettore, come sarebbe stato Oliver Cromwell dopo la Rivoluzione Puritana in Inghilterra. Un Primo Console un po’ più sincero e ben intenzionato del Napoleone Bonaparte che – ispirandosi a lui così come la Rivoluzione da cui era sorto si sarebbe ispirata alle istituzioni repubblicane dell’Antica Roma prima di Cesare, non avendo tra l’altro storicamente altri modelli confacenti – avrebbe ripercorso le sue orme al pari di ogni altra figura storica moderna interessata al predominio personale. La storia del Novecento è piena di imitatori più o meno consapevoli del Cesarismo.

Giulio Cesare, con buona pace di Alessandro Magno e degli altri condottieri del Mondo Antico, era una figura di tale statura da rimanere nell’immaginario collettivo come colui a cui rifarsi, sia volendone imitare le gesta che volendo semplicemente disporsi a seguire un capo in una rivoluzione o in un regime populista.

Giulio Cesare era Roma, la migliore Roma che sta a tutt’oggi alla base della nostra migliore cultura civile. I congiurati che lo abbatterono erano motivati da invidia e idee politiche distorte, offuscate. La democrazia che Roma aveva ereditato dalla Atene di Pericle non poteva più governare il grande impero che l’eroe del De Bello Gallico le aveva messo a disposizione. Servivano nuove istituzioni, una repubblica presidenziale che forse era nelle corde dell’uomo che fu assassinato a tradimento il 15 marzo del 44 a. C., le famose Idi che non passarono senza che il suo sangue fosse versato. E che invece dopo la sua morte e l’ennesima guerra civile lasciarono il posto alla monarchia più assoluta che il mondo avesse visto fino ad allora. L’Impero di Augusto era un potere quasi teocratico, ed il Senato che non aveva avuto paura di niente al mondo da allora in poi rimase in vita quasi soltanto a fare folclore. Grazie ai congiurati Bruto e Cassio, che non a caso Dante Alighieri colloca al livello più basso del suo Inferno.

Quando entrò in Senato, Bruto non fu il primo ad infliggere la propria delle 23 coltellate che spensero la vita di suo padre ed insieme il sogno di salvare il vecchio potere condiviso tra Patrizi e Plebei dai tempi dei Gracchi. Ma fu quello che gli inferse la coltellata più dolorosa. «Tu quoque, Brute, fili mi!»

Il Giulio Cesare di René Goscinny e Albert Uderzo

Il Giulio Cesare di René Goscinny e Albert Uderzo

Anche tu, bruto, figlio mio!….. Archetipo di tutto ciò che la politica avrebbe riservato alle vicende umane dopo di lui, Cesare sperimentò l’ingratitudine ed il tradimento come categorie dell’essere, prima ancora che come dolore personale pubblico e privato, sia pure nei suoi ultimi istanti. E il mondo che credeva di essersi liberato del più terribile dei tiranni sperimentò dopo di lui tirannie di una ferocia che Caio Giulio Cesare, pur essendo uomo dei suoi tempi, non aveva forse neanche concepito nei propri incubi.

Tirannie che durano ancora ai giorni nostri. Anche e soprattutto per mano cruenta e crudele di chi dice di essere amico del popolo e di combattere in suo nome.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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