Per una di quelle beffe che la storia a volte si incarica di compiere, gli Ebrei italiani – almeno quelli benestanti – erano stati fra i principali sostenitori del regime fascista, fin dalla Marcia su Roma ed anche prima. Essendo molti di essi, per ragioni storiche e culturali, dedicati al mondo degli affari, dei commerci, della finanza, il nuovo regime aveva promesso loro – in modo peraltro interessato – sviluppo e prosperità. Promessa poi mantenuta, non fosse altro per il fatto di aver messo un argine al bolscevismo dopo la Prima Guerra Mondiale ed al tradizionale antisemitismo di molti circoli culturali di ispirazione cattolica, per non parlare della popolazione comune).
Gli Ebrei si sentivano cittadini (o per meglio dire sudditi, secondo lo status dell’epoca) italiani a tutti gli effetti, e ben disposti verso un governo, quello di Mussolini, che non aveva fatto nulla per discriminarli, anzi, almeno fino a quel 5 settembre 1938.
Il Fascismo stesso, tra tante idiosincrasie, sembrava alieno almeno da quella che da quasi 2.000 anni sfociava in un sentimento razzista talmente forte da legittimare qualsiasi persecuzione. Per la Chiesa di Roma, gli Ebrei erano stati ed erano ancora la razza maledetta, gli assassini di Dio, secondo l’anatema emesso fin dall’indomani della crocefissione di Cristo. Il popolo, la gente comune, anche nei secoli bui della più grande ignoranza, aveva avuto poche certezze. Una di queste era che è lecito discriminare, maledire e perseguire gli Ebrei con ogni mezzo. Dio lo voleva, o quantomeno l’avrebbe giustificato e capito.
Benito Mussolini aveva sempre tenuto fuori le questioni razziali dalle sue scelte politiche e dai suoi discorsi. In parte per calcolo (l’Italia era già allora un paese profondamente diviso tra Nord e Sud, e la conquista della Quarta Sponda mediterranea aveva inserito nel novero dei sudditi del Re d’Italia popolazioni di origine araba, gli abitanti della Libia, oltre agli Eritrei che ne facevano parte già dall’Ottocento. Degli Ebrei, spesso finanziatori e sostenitori del regime si è già detto.
In parte ciò era avvenuto anche per scarso interesse personale. Una volta il Duce definì il razzismo «roba da biondi», liquidando sprezzantemente la questione che invece stava assumendo enorme rilevanza in Germania e nelle altre parti d’Europa dove il Nazismo ed altri imitatori del Fascismo italiano stavano prendendo il potere.
Erede del glorioso Impero Romano, lo Stato italiano era estraneo al razzismo per motivi ancestrali, i Romani erano stati tutto fuori che razzisti (la Diaspora era avvenuta per motivi politici, non religiosi o etnici) e gli italiani moderni avrebbero continuato ad esserlo se la Chiesa Cattolica non avesse predicato loro diversamente, inquinando una tradizione di grande civiltà. Quanto al Duce, era talmente poco razzista che la sua amante ufficiale prima di Claretta Petacci, Margherita Sarfatti, era ebrea ed esponente di quell’alta borghesia ebraica che nel Fascismo originario e fino alla proclamazione dell’Impero si era trovata perfettamente a suo agio.
Le cose cambiarono con la conquista dell’Etiopia, nel 1936. Mussolini si sarebbe aspettato che le potenze coloniali, Gran Bretagna e Francia, accogliessero a braccia aperte l’Italia nel loro club ristretto, congratulandosi per il ritorno delle aquile romane sui colli fatali. Non era stato così, l’Italia si era ritrovata in un angolo, emarginata dalla comunità internazionale organizzata nella Società delle Nazioni (l’antesignana dell’ONU), che aveva addirittura espresso il proprio sostegno e la propria simpatia alla sottomessa Etiopia.
Da lì a ritrovarsi costretti all’alleanza con la Germania del luciferino Hitler il passo fu purtroppo assai breve. Il Duce non era uomo di particolari scrupoli morali. Il Nazismo lo disgustava per i suoi eccessi, ma lo lusingava in quanto gli aveva riconosciuto il diritto di primogenitura al quale poi il Fuhrer si era ispirato. Mussolini riteneva Hitler un individuo mediocre e impresentabile, ma quando se lo trovò accanto come l’unico disposto a sostenerlo – per motivi analoghi, aspirando anche la Germania al suo lebensraum, spazio vitale da conquistare con gli stessi metodi dei Fascisti -, anche lo squinternato duce tedesco gli parve un interlocutore accettabile.
Allo stesso modo, dopo aver già promulgato leggi razziali nei confronti dei nuovi sudditi africani (soprattutto in ordine al divieto di matrimoni misti e concubinaggio), la pregiudiziale antisemita dei nuovi alleati del Patto d’Acciaio gli parve improvvisamente un sacrificio più che sostenibile. Un modico prezzo da pagare alle insistenti richieste di Hitler, anche a costo di una clamorosa ingiustizia verso italiani che avevano sostenuto la patria ed il regime quanto e più di tanti altri.
Il 5 settembre 1938 Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d’Italia e d’Albania ed Imperatore d’Etiopia si trovò alla firma sul suo tavolo nella tenuta di San Rossore presso Pisa il primo di una serie di provvedimenti legislativi che sarebbe andato sotto il nome di Leggi Razziali, e che avrebbe uniformato l’ordinamento italiano a quello germanico in ordine alla discriminazione e persecuzione della razza ebraica. Le Leggi tenevano dietro ad un dibattito (si fa per dire) attraverso cui ambienti culturali ed mondo accademico avevano prodotto addirittura un Manifesto della Razza, con cui si tentava di dare fondamento scientifico alla superiorità della razza bianca caucasica europea e cristiana sulle altre.
Il Re firmò senza battere ciglio, come aveva sempre fatto a partire da quel 28 ottobre 1922 in cui aveva rifiutato al generale Cittadini l’avallo all’ordine di fermare le Camicie Nere alla Marcia su Roma. Uomo senza carattere, pusillanime, ma di grandi ambizioni (che il Fascismo aveva alimentato e soddisfatto), il sovrano conosciuto come Sciaboletta per la sua statura non eccelsa dimostrò una statura morale ancora minore accettando di apporre il sigillo reale su un provvedimento che oltre a configurare un abominio giuridico avrebbe comportato anche la prima sostanziale perdita di consenso popolare nei suoi confronti ed in quelli del regime da lui favorito.
Come già nei confronti degli africani, le nuove Leggi Razziali imponevano il divieto di matrimonio tra Ebrei e non, di commistione del sangue tra Ebrei ed Ariani, il divieto di accesso in Italia agli Ebrei e la revoca delle cittadinanze loro concesse dopo il 1919, il divieto dei bambini Ebrei a partecipare all’istruzione presso scuole pubbliche, il divieto per gli Ebrei di svolgere determinate professioni (quelle in particolar modo cosiddette liberali, medico, avvocato, notaio, giornalista, ecc…. in cui tra l’altro fino a quel momento avevano eccelso), il divieto di accesso ai pubblici impieghi, civili e militari, l’esproprio dei beni in determinati casi, e tutta una serie di altre più o meno gravi limitazioni che facevano degli individui di razza giudaica una sorta di untermenschen (sottospecie di uomini inferiori) sul modello germanico.
Da notare, furono pochi gli appartenenti al mondo accademico e della cultura ufficiale che ebbero il coraggio di ribellarsi alle disposizioni del governo, quasi tutti gli altri invece preferirono voltare la faccia a colleghi fino a quel momento stimati e con cui erano in rapporti di amicizia e collaborazione. Come sarebbe successo per il tesseramento obbligatorio al Partito Nazionale Fascista, furono poco più di una decina su circa oltre un migliaio – per dare un ordine di grandezza esemplificativo – i professori universitari che rifiutarono di mettersi in camicia nera per continuare ad esercitare il loro magistero.
L’unica voce autorevole, in controtendenza alla storia della propria organizzazione, fu proprio quella del Papa Pio XI («Ma io mi vergogno… mi vergogno di essere italiano. E lei padre [il gesuita Tacchi Venturi, n.d.r.], lo dica pure a Mussolini! Io non come papa, ma come italiano mi vergogno! Il popolo italiano è diventato un branco di pecore stupide. Io parlerò, non avrò paura. Mi preme il Concordato, ma più mi preme la coscienza.»), che inaugurò la pratica di dare asilo in Vaticano agli Ebrei costretti all’esilio dalle Leggi Razziali (tra i quali la stessa ex amante del Duce Margherita Sarfatti). Pratica che il suo successore Pio XII, per quanto non dimostrasse mai un atteggiamento particolarmente amichevole e comprensivo verso gli stessi Ebrei e le altre vittime del Nazismo, avrebbe di fatto continuato in circostanze assai più drammatiche durante gli anni del secondo conflitto mondiale.
Le Leggi Razziali furono abrogate dei decreti-legge n. 25 e 26 del 20 gennaio 1944, emanati durante il Regno del Sud da un Vittorio Emanuele III che ormai era un ectoplasma sopravvissuto a se stesso e dal potere condizionato dall’avallo dell’esercito alleato di occupazione.
Il razzismo in Italia era durato poco più di cinque anni, giusto il tempo di dare un contributo sostanziale a quel genocidio costato sei milioni di morti perpetrato dai Tedeschi ai danni degli Ebrei. E di ricreare – a fianco di tanti esempi di coraggio e di solidarietà verificatisi tra la popolazione comune durante la guerra e i rastrellamenti delle SS – il risorgere di una cultura antisemita da cui non può dire di essersi liberata completamente neanche l’Italia democratica sorta dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale e della Soluzione Finale.
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