Accadde Oggi

L’entrata in guerra

Benito Mussolini

Erano passati poco più di 20 anni. Sono nato il 9 giugno del 1961. Ventuno anni prima era stato l’ultimo giorno di pace. Il giorno dopo, l’allora capo del governo, il Duce del Fascismo Benito Mussolini, aveva annunciato al paese che era appena entrato in quella che sarebbe passata alla storia come la seconda guerra mondiale. La più terribile e devastante delle guerre combattute dall’uomo fino ad oggi, da quando possiede questo pianeta.

Vent’anni, per definizione l’intervallo standard tra una generazione e la successiva. Ci ho pensato spesso, ma finché molti altri anni non sono trascorsi ad allungare la mia vita, non ho mai saputo dare un senso fisico ad un simile lasso di tempo. Siamo adesso nel 2023, ventuno anni fa c’erano stati da poco gli Europei di calcio in Belgio, persi dall’Italia agli ultimi minuti della finale. Pantani era stato squalificato – per ragioni che ad oggi ancora nessuno ci ha spiegato – dopo aver vinto Giro e Tour come aveva fatto Bartali negli anni che avevano preceduto quella terribile guerra.

Al governo c’era D’Alema, che aveva scalzato il suo leader di coalizione Prodi grazie ad uno di quei tanti ribaltoni a cui la politica italiana del dopoguerra ci ha abituato. L’Unione Europea muoveva i primi passi, e non aveva ancora fatto danni nelle nostre esistenze e nel nostro tenore di vita. Stava per chiudersi un secolo nell’illusione che l’epoca delle guerre era finita (ne era scoppiata una da poco, nel 1999, nel cuore dell’Europa in Jugoslavia, forse quella che almeno per efferatezza ha saputo avvicinarsi più di ogni altra a quella del 1939-45). Si era aperto un nuovo secolo e addirittura un nuovo millennio, e per prima cosa avrebbe tirato giù ogni nostra certezza acquisita a caro prezzo e con sovrano sfoggio di ottimismo, insieme alle Torri Gemelle di New York.

Adesso che ne ho molti di più, ho capito che vent’anni sono tutto e non sono niente. Non lo erano allora, non lo sono adesso. Un lasso di tempo che ci allontana di poco da qualsiasi evento, quanto basta per far rimarginare ferite non troppo profonde, ma mai sufficiente a emendarne le ragioni. Tra la prima e la seconda guerra mondiale erano intercorsi giusto poco più di vent’anni. Tra la seconda e la mia nascita, altrettanti. Per una manciata di lustri, mi era stato risparmiato di venire al mondo in un’epoca assai più terribile,  quella che era toccata ai miei genitori.

Mi sono sempre meravigliato della calma e della tranquillità con cui ho sempre sentito rievocare al babbo, alla mamma e a tutti gli adulti della mia famiglia e di quelle dei miei amici, quegli anni in cui sembrava che la sopravvivenza stessa del mondo fosse in discussione. Le Fortezze Volanti, il passaggio del fronte, le violenze dei marocchini su donne e uomini inermi e sconfitti prima ancora del loro arrivo, gli americani che lanciavano sigarette e cioccolata dai loro veicoli mentre passavano per le strade delle città liberate diretti a nord dove c’erano ancora i tedeschi, fermi e letali sulla Linea Gotica.

Lo zio fattore che teneva a bada quei tedeschi che avevano occupato il suo podere dopo l’8 settembre, e che nascondeva nello stesso tempo gli ebrei nelle cantine e riforniva i partigiani al calare delle tenebre, raccontava tutto questo con la massima naturalezza e serenità, come fosse capitato ad un altro o fosse un film visto al cinema. E poi ci sono quelle croci bianche allineate nei cimiteri di guerra americani, che mi emozionano ancora oggi e mi fanno ringraziare il cielo: grazie a quei ragazzi che dormono là sotto e a quei benedetti ventun anni a me tutto questo è stato risparmiato.

E posso dire e raccontare adesso tutto questo ad alta voce. Ai tempi in cui il nonno attraversava le linee per andare a cercare cibo in campagna al mercato nero dei contadini portandosi dietro il mio babbo bambino (aveva appena dieci anni, l’età in cui la mia preoccupazione maggiore sarebbe stata quella di capire se la Fiorentina avrebbe rivinto un altro scudetto dopo quello del 1969), a quei tempi bisognava stare attenti anche a come si salutavano le persone per la strada. Si finiva al muro anche soltanto per aver mancato di rispetto a qualcosa di nero, camicia, labaro, fascio o quant’altro.

Tutto questo veniva da lontano, da altri vent’anni precedenti (la regola del venti è in genere sovrana nella storia, seguendo il ritmo del succedersi delle generazioni). E trovò culmine, maturazione, sintesi, precipitazione quel 10 giugno 1940. L’Uomo che era stato quello del Destino venti anni prima si rivelò quello della Sciagura e della Disfatta venti anni dopo, complice anche un sistema, un regime che non gli aveva previsto antitesi e non gli aveva fornito anticorpi.

Mussolini aveva risposto ad esigenze di modernizzazione e progresso del paese a cui il vecchio stato liberale aveva fallito miseramente nel far fronte. Poi si era illuso di avere un futuro di grande potenza coloniale prima e di poter permettersi di correre avventure pericolose poi, sullo scacchiere mondiale. E’ opinione non infrequente degli storici che se avesse avuto la stessa lucidità di Francisco Franco nel tenere fuori il suo paese dalla catastrofe che Hitler stava scatenando, sarebbe morto anche lui nel suo letto anziché al cancello della villa di Giulino di Mezzegra.

Quando si affacciò al balcone di Palazzo Venezia il pomeriggio del 10 giugno 1940 e cominciò il più storico ed il più drammatico dei suoi discorsi, il Duce del Fascismo era un uomo che stava perdendo il contatto con una realtà che venti anni prima era stato maestro nel cogliere al volo, e che adesso invece lo sorpassava inesorabilmente. Era andato al potere cavalcando una ideologia che faceva tra l’altro dell’esaltazione della gioventù, del giovanilismo uno dei suoi punti cardini. E adesso si apprestava a perderlo – e a condurre alla rovina il suo paese – dimostrandosi improvvisamente e impietosamente invecchiato.

Non era ancora il Mussolini che avrebbe amaramente definito il suo popolo non difficile, ma piuttosto inutile da governare. Ma si apprestava a constatare già all’indomani di quel discorso del 10 giugno che degli otto milioni di baionette che aveva sognato e pensato di creare per guadagnare all’Italia il suo posto nel mondo (o riguadagnare, rievocando non a caso la mitologia e la simbologia della Roma antica) non ve n’era traccia.

C’era tanta gente piuttosto ad ascoltarlo apparentemente con entusiasmo in Piazza Venezia e nelle altre piazze del paese, o davanti agli apparecchi radio che si diffondevano sempre più nelle case degli italiani. Se non erano le folle oceaniche di cui parlava il Regime, erano quantomeno moltitudini impressionanti, che danno da riflettere – sia dal punto di vista storico che da quello dell’attualità – sulle nozioni di fascismo e antifascismo alle quali ci siamo riferiti negli ultimi ottant’anni.

Danno da riflettere in ultima analisi sul carattere degli italiani, che in maggior parte – dopo il 25 aprile 1945 e la conclusione della tragedia che prendeva il via quel pomeriggio – avrebbero negato di aver mai preso parte a quegli eventi, di aver mai gridato Duce, Duce! Con più partecipazione o forse con più improntitudine di quanta ne aveva avuta l’apostolo Pietro nel rinnegare tre volte il suo Signore prima del canto del gallo.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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