Con 136 voti contro 16 contrari e 2 astenuti il direttivo del Partito Democratico sfiducia Enrico Letta e investe il neosegretario Matteo Renzi dell’onore-onere di ricevere l’incarico di formare un nuovo governo. La svolta epocale, per quanto ormai nell’aria, si consuma in modo clamoroso in poche ore, con Matteo Renzi che capovolge integralmente quattro anni di scelte politiche indirizzate sempre verso un cambiamento, se non una rottura del sistema e accetta quel ruolo di salvatore che la Patria improvvisamente gli ha attribuito. Addio Terza Repubblica, si torna alla Prima o al massimo alla Seconda, con un avvicendamento che non ha nulla da invidiare a quelli con cui De Mita prese il posto di Craxi o D’Alema quello di Prodi.
Oggi pomeriggio, dopo un ultimo Consiglio dei Ministri all’ordine del giorno del quale era tra l’altro iscritta doverosamente la spinosa questione dei Marò illegalmente detenuti in India (e del pilatesco lavaggio delle mani recentemente operato dalle Nazioni Unite), Enrico Letta salirà al Quirinale a rimettere il suo incarico di Presidente del Consiglio nelle mani di colui che glielo aveva dato dieci mesi fa. Si conclude così la seconda esperienza di governo fondata non sul consenso popolare espresso dal voto ma sulla precisa volontà del Capo dello Stato di indirizzare la crisi politica ed economica del Paese in una direzione controllata e controllabile. Da chi, è un’altra questione.
Il governo il cui battesimo fu bagnato dal sangue dei due agenti in servizio in Piazza Montecitorio abbattuti dai colpi del presunto folle Luigi Preiti lascia un’Italia i cui problemi non sono stati affatto risolti, ma viaggiano semmai speditamente verso la cancrena. E’ un paese che sperava – o voleva sperare – sempre più spasmodicamente in un cambiamento radicale come quello proposto dal “rottamatore” Sindaco di Firenze, a ciò indotto da una disperazione sempre più profonda e radicata in una economia che non presenta alcun segno di ripresa e in un sistema politico che non ha nessuna intenzione di autoriformarsi.
Quello che si trova davanti stamattina in prospettiva questo paese è un avvicendamento governativo che se poteva essere tollerato negli anni delle cosiddette vacche grasse, allorché la cosiddetta palude democristiana o il berlusconismo erano in ogni caso in grado di governare – o quantomeno non ostacolare – cicli produttivi ed economici tendenzialmente virtuosi, adesso non può non apparire altro che l’ennesimo e ultimo tentativo di una casta ormai completamente dissociata dal paese reale di perpetuarsi, di sopravvivere a tutto, perfino a se stessa. Quello che sorprende è che a questo gioco si presti colui che aveva promesso di chiuderlo, fondando su questa promessa tutta la sua carriera politica a venire.
Non vi può esser dubbio infatti, anche a non possedere le cosiddette fonti bene informate, su quale sarà il nominativo della persona a cui Giorgio Napolitano si rivolgerà un attimo dopo aver congedato Enrico letta, preso atto delle sue dimissioni. Le fonti bene informate comunque riferiscono di un Presidente che dopo le consuete rimostranze iniziali a favore dell’accanimento terapeutico su Letta, si è disposto obtorto collo ad adeguare il gioco alle necessità di cui fare virtù. Come nel 2011, il coup de theatre andato in scena ieri è stato preparato, anche se in tempi più ristretti.
L’Italia è dal dopoguerra un paese a sovranità molto limitata. Tuttavia, se prima erano facilmente identificabili (e condivisibili) nella Guerra Fredda le ragioni di questa limitazione e nell’appartenenza al Patto Atlantico le sue modalità d’esercizio, negli ultimi tempi il condizionamento internazionale è diventato qualcosa di più pressante nella sostanza ma di più sfuggente nella natura da poter definire. Si parla sempre di poteri forti, di circoli economici d’elite. Confindustria e le Banche sono alcuni di questi, e forse nemmeno i più importanti, poiché è la grande finanza internazionale ad aleggiare su tutto e tutto controllare e determinare. A quanto pare, a questa grande finanza internazionale pare che stia in gran dispitto la prospettiva di far tornare al voto gli italiani, come promesso dal giovane Renzi. Ed ecco allora il colpo di genio, mandiamoci proprio quel giovane a salvare la Patria, senza far votare nessuno e costringendo colui che aveva già tirato fuori dal cilindro Monti e Letta a dargli l’incarico.
Ecco quindi uscire il libro di Alan Friedman, prestigioso giornalista americano che ci ha messo tre anni a scoprire che dal rubinetto di sinistra esce acqua calda. O forse dopo tre anni, e guarda caso al momento giusto, ha avuto da qualcuno i documenti che gli servivano. Ecco la grancassa del Corriere della Sera, giornale di Confindustria se mai ce n’è stato uno, ribadire che quell’acqua non è calda, addirittura ustiona, ricordando a tutti quello che già sanno, che nell’estate del 2011 ci fu una alleanza tra poteri interni ed esterni al paese per defenestrare il governo in carica (bene o male eletto dal voto popolare) a favore di un governo tecnico, di salute se non pubblica certamente di alcuni privati. E a questa alleanza si prestò di fatto colui che doveva essere il garante della Costituzione, il Presidente della Repubblica, coadiuvato da tutte le forze politiche presenti in Parlamento.
Il quale Presidente, già sottoposto a procedura di impeachment dal Movimento Cinque Stelle e malgrado la strenua difesa di Boldrini, Grasso e dei loro Mille, probabilmente avverte lo stress di una posizione un po’ più difficile, unita forse alla stanchezza per un’età che si avvicina alla veneranda soglia dei 90, il tutto condito – anzi scondito – da una cultura democratica da cui si è sempre tenuto alla larga per tutto il corso della sua lunga vita e militanza politica.
Ecco perché Napolitano ha chiamato Renzi, e lo sciagurato Renzi – ci perdoni la licenza il Manzoni – ha risposto. La catena delle pressioni a cui non si può dire di no produrrà nelle prossime ore un incarico al Sindaco fiorentino, il quale già da ieri ha cambiato le sue parole d’ordine: governo fino al 2018, maggioranza delle larghe intese che non si discute, riforme sì ma con tempi che tornano quelli biblici ed incerti della Bicamerale di Dalemiana memoria, altro che blitzkrieg di berlusconiana memoria.
Il quale Berlusconi sta alla finestra e ringrazia, preparandosi a elezioni che saranno sicuramente oltre la scadenza della sua interdizione e che lo vedranno pronto – con qualunque sistema elettorale – ad intercettare il voto di quegli italiani, sempre di più, la cui voglia di protestare sarà cresciuta a dismisura. Sempre che nel frattempo non si presenti sulla scena qualche malintenzionato in camicia nera o di qualche altro colore, non importa, tanto quello che conterà sarà la determinazione a far saltare davvero un sistema che non regge più adesso, figuriamoci di qui al 2018.
Perché l’unica cosa certa è che non è Matteo Renzi a rischiare tutto con questa mossa azzardata e veterodemocristiana, ma è l’Italia, che perderà probabilmente l’ultima chance di cambiamento democratico a disposizione. Se si brucia il Sindaco, che alla fine ha scelto la sua smisurata ambizione (parole sue), un futuro da qualche parte comunque ce l’ha, di trombati riciclati sono piene le nostre aziende, pubbliche e private. Se si brucia l’Italia, un futuro non ce l’ha più. Almeno non un futuro a cui sia piacevole pensare.
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