L’Italia che torna a vincere la Coppa Davis è un po’ come quell’abbigliamento che torna di moda dopo un paio di generazioni, dopo essere stato da tempo classificato come vintage ed essere stato riposto in qualche armadio, per esserne ritirato fuori in fretta e furia allorché si è visto sulla copertina di qualche rivista, annunciato come l’ultima moda della stagione in arrivo. O la vecchia racchetta del babbo capitata in mano un sacco di volte quando si mette a posto la cantina, più volte sul punto di finire a qualche robivecchi e sempre salvata, tenuta tra gli oggetti che smuovono ancora qualcosa in un angolino del cuore, che mantengono un nonsoché di prezioso. Hai visto mai che prima o poi…
Dwight Filley Davis sarebbe passato alla storia per essere stato segretario del Dipartimento della Guerra degli Stati Uniti nell’amministrazione del presidente Calvin Coolidge. Ma prima di allora, ai tempi in cui era un famoso e forte tennista (finalista degli U.S. Open nell’edizione 1898 e tre volte vincitore del doppio negli stessi anni), aveva avuto la geniale idea di introdurre in un gioco individualista per eccellenza come il tennis la scommessa di una competizione a squadre.
Insieme ad alcuni suoi colleghi con i quali rappresentava l’Università di Harvard nelle competizioni allora rigorosamente dilettantistiche (il professionismo si sarebbe timidamente affacciato alle Olimpiadi e nel mondo dello sport soltanto alla fine degli anni 20, ai Giochi di Amsterdam), lanciò il guanto di sfida alla squadra nazionale più forte dell’epoca: quella degli inglesi, maestri inventori del tennis moderno così come di quasi tutti gli sport che oggi giochiamo o seguiamo da spettatori.
La Gran Bretagna aveva allora un atteggiamento snob, di superiorità, soprattutto nei confronti della ex colonia americana, che le era già costata la prima edizione (e poi tutte le successive) della Coppa America di vela e che un giorno (mondiali di calcio brasiliani, 1950) le sarebbe costata anche una cocente sconfitta a calcio contro la cenerentola Stati Uniti, all’epoca una specie di squadra di dopolavoristi.
Al Longwood Cricket Club di Brookline, Massachussets, dove fu messa in palio la prima insalatiera (fatta fondere e cesellare direttamente da Davis, che pagò di tasca sua), i britannici mandarono una squadra sicuramente forte, ma non la più forte. I fratelli Renshaw, William ed Ernest, i fuoriclasse dell’epoca plurivincitori di Wimbledon e degli altri grandi tornei, erano sul viale del tramonto, o non se la sentirono di affrontare la lunga traversata oceanica fino a Boston. Al loro posto, Arthur Gore, Ernest Black e Roper Barrett si fecero sorprendere dagli yankees Malcolm Whitman, Holcombe Ward e naturalmente Dwight Davis, che rispetto a loro possedevano altrettanto sciovinismo ma più grinta e voglia di vincere.
L’anno dopo non si gareggiò, ma due anni dopo ancora gli inglesi chiesero ed ottennero la rivincita, che finì poi per essere istituzionalizzata. Nel 1902 la Coppa rimase in America, ma nel 1903 prese la strada del Regno Unito, dove rimase poi per quattro anni. A quel tempo il tennis, nato dalla evoluzione della rinascimentale pallacorda, era diffuso soprattutto nei quattro paesi sede di quei tornei che sarebbero stati codificati come facenti parte del Grand Slam: Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti e Australia. Tre superfici in erba ed una in terra battuta.
Era inevitabile che la Davis non potesse restare una questione angloamericana, una rivincita a colpi di racchetta tra ex madrepatria ed ex colonia. Nel 1905 Francia e Australasia (selezione congiunta di Australia e Nuova Zelanda) furono ammesse alla contesa insieme al Belgio ed all’Austria (paese dove il gioco stava prendendo piede, pare che lo stesso Sigmund Freud fosse un appassionato e abile giocatore). L’Italia cominciò a gareggiare negli anni 20, più o meno nel periodo in cui il coccodrillo René Lacoste, assieme ai compagni Henri Cochet, Jacques Brugnon e Jean Borotra, fece della Francia dei Quattro Moschettieri la nazione egemone.
Il torneo si chiamava allora International Lawn Tennis Challenge. Sarebbe stato battezzato Coppa Davis soltanto dopo la morte del suo fondatore nel 1945. Fino al 1971 mantenne la formula del challenge round, secondo la quale il tabellone del torneo, attraverso incontri ad eliminazione diretta, serviva a determinare chi sarebbe stato lo sfidante del detentore del titolo vinto l’anno precedente. Detentore che attendeva comodamente a casa propria il suo avversario, limitando la propria fatica ad un solo match. La finale, appunto.
Fino al 1973, grazie anche al fatto di poter limitare appunto la fatica e di poter scegliere la superficie su cui si sarebbe giocata la finale (mentre gli aspiranti sfidanti passavano attraverso una serie infinita di turni eliminatori, il cui numero cresceva man mano che ai partecipanti si aggiungevano quasi tutte le nazioni del mondo, raccolte in un unico tabellone senza teste di serie), la Davis era passata dalla bacheca americana a quelle australiana, francese e britannica senza che nessun altro dei paesi nel frattempo divenuti tennisticamente avanzati avesse potuto interferire.
L’Italia aveva giocato la finale due volte sole, nel 1960 e nel 1961. Il suo miglior giocatore, Nicola Pietrangeli, sarebbe poi passato alla storia come il recordman della Davis, il giocatore più presente e quello in assoluto con il maggior numero di vittorie individuali, 120 contro 44 sconfitte per un totale di 164 presenze. Ma contro gli aussies – che in quel momento dietro al fuoriclasse mai più eguagliato da nessuno, Rod Laver, autore di due Grand Slam nel 1962 e 1969, potevano schierare una serie quasi infinita di campioni appena di poco inferiori a lui – non c’era stato niente da fare. Sull’erba del White City Stadium di Sidney, dove l’Italia avrebbe combattuto valorosamente ma sfortunatamente anche nella finale del 1977, i padroni di casa erano troppo favoriti, troppo più a loro agio.
I tempi moderni fecero irruzione nel torneo nel 1974. Dal 1969 il tennis era diventato open, aveva cioé aperto al professionismo mettendo fine a quell’ipocrisia che aveva privato tanti campioni – tra cui lo stesso Rod Laver – della possibilità di avere un palmarès ancora più strabiliante. Ma ci fu un rovescio della medaglia clamoroso: di colpo, indossare la maglia della nazionale del proprio paese da motivo di orgoglio che era stato divenne motivo di fastidio, e di rinuncia ai lauti guadagni che i tennisti neoprofessionisti potevano mettersi in tasca evitando la convocazione agli incontri con in palio la vecchia, gloriosa, ma scarsamente remunerativa insalatiera.
Alle porte della Coppa Davis bussava già tra l’altro insistentemente la novità introdotta nei grandi e piccoli tornei del circuito: il tie break, che aveva scorciato considerevolmente gli incontri al meglio dei cinque set. La ITF, la Federazione internazionale, tentò di resistere all’introduzione di questa ed altre novità per tutti gli anni settanta. Risultato, il non infrequente slittamento degli incontri decisivi al lunedi (ricordiamo un Panatta – Newcombe decisivo per l’accesso dell’Italia alla finale del 1976 che regalò una notte delle streghe suppletiva ai giocatori ed agli aficionados). Con conseguenti complicazioni tra l’altro per la partecipazione dei giocatori ai tornei delle settimane successive.
I più forti, Borg, Connors, Vilas, cominciarono a disertare la Coppa. Nell’anno della sua unica vittoria, l’Italia, beneficiò di diverse assenze illustri, una su tutte quella di Bjorn Borg in Italia – Svezia, che le semplificò indubbiamente le cose. Ai vizi indotti dal professionismo si aggiunse poi la politica. La prima nazione a interrompere il passaggio di mano all’interno del quadrilatero USA – GB – FRA – AUS fu incredibilmente e paradossalmente il Sudafrica, nazione tecnicamente non eccelsa ma contro cui negli anni in cui si decideva il suo boicottaggio generale per sanzionare l’Apartheid, non voleva giocare nessuno. Nel 1974 la finale infatti di fatto non fu giocata, causa ritiro dell’URSS. Johannesburg ringraziò, e incise il proprio nome sul basamento della Coppa.
Nel 1975 fu la prima volta della Svezia, paese che negli anni successivi avrebbe fatto incetta di vittorie. Il mostro Borg riuscì a vincere il trofeo quasi da solo. L’anno dopo fu la volta dei Quattro Moschettieri azzurri, Panatta, Barazzutti, Bertolucci, Zugarelli, guidati dal capitano non giocatore Pietrangeli che finalmente poté coronare un sogno atteso quindici anni.
Quella volta, l’avversario più insidioso non fu l’erba, e nemmeno l’Australia che pur ci fece vedere i sorci verdi in semifinale. Fu la politica, che premeva per il boicottaggio dell’altra finalista, il Cile dove da tre anni governava Pinochet versando copiosamente sangue. Pietrangeli, Panatta & c. tennero duro, le magliette rosse portarono a casa – dallo stadio del tennis di Santiago adiacente a quello del calcio dove i dissidenti cileni erano diventati desaparecidos – la nostra prima e fino a ieri l’altro unica Coppa Davis.
La Coppa Davis manteneva il suo fascino, ma lottava contro il tempo ed i cambiamenti, per quanto prosaici. Dovette cedere al progresso una prima volta nel 1980, allorché la Federazione internazionale decise l’istituzione di una serie A ed una serie B, per accorciare gli incontri e liberare spazio nel calendario dei tornei. In quegli anni l’Italia metteva in campo selezioni ancora forti, anche se nessuna più così forte come quella che alle due finali del ‘60 e ‘61 aveva aggiunto quelle del ‘76, ‘77, ‘79 (contro gli USA di John McEnroe) e ’80 (contro la Cecoslovacchia di Ivan Lendl). Tutte disputate sfortunatamente fuori casa.
In finale la squadra azzurra vi sarebbe tornata un’altra volta sola. Stavolta in casa, nel 1998, anche se la beffa del destino colpì comunque a tradimento. L’infortunio di Andrea Gaudenzi nel primo incontro contro la Svezia orientò la sorte e l’inerzia di quel match.
Dopo quella sconfitta, arrivò nel 2000 la retrocessione in serie B. Dove gli azzurri sarebbero rimasti per ben quindici anni. Il tennis italiano che cercava di rifondarsi e di ritrovare portacolori all’altezza si sarebbe riaffacciato al tabellone principale della Davis soltanto nel 2015, per ritrovare una competizione profondamente cambiata.
In questi ultimi anni, la Spagna – che proprio nel 2000 aveva colto la sua prima vittoria – è diventata un paese egemone nello sport in generale ma soprattutto nel tennis, dove la sua lunga fila di campioni culminata in un altro mostro, Rafael Nadal, le ha consentito una incetta considerevole di vittorie e soddisfazioni.
Come già è successo nel Motociclismo, dove i Gran Premi ormai sono affidati in gestione esclusiva alla società Dorna Sports con sede a Madrid che ne ha fatto in pratica un feudo iberico, anche la Coppa Davis di tennis alla fine ha avuto l’assalto di una falange spagnola a cui non ha potuto o saputo resistere. Il gruppo Kosmos, creato dall’ex campione del mondo di calcio Gerard Piqué, ha allungato le mani sull’insalatiera, e una Federazione Internazionale ormai più attenta al business che allo sport gliela ha data in gestione.
E così, a partire dal 2019 la Coppa Davis è diventata una fotocopia della Federation Cup femminile, con match eliminatori concentrati in due giorni e disputati al meglio dei tre set, con tie breaks risolutivi e doppio giocato alla fine solo se decisivo. Per convogliare una selezione di 18 squadre nazionali superstiti a Madrid (in aggiunta alle semifinaliste dell’anno prima, per un totale di 24 team) presso la cosiddetta Caja Magica, dove si svolge già il locale torneo open e dove si gioca di default su un campo sintetico superveloce. L’ultima Davis tradizionale è andata in archivio nel 2018 nelle mani della Croazia che ha conquistato quel trofeo che la vecchia Jugoslavia aveva potuto vedere soltanto da lontano. La prima Davis giocata in Spagna è stata poi vinta dalla Spagna, manco a dirlo, seguita dal Covid (edizione del 2020 non assegnata), poi dalla Russia, dal Canada e dall’Italia.
Ne è passato di tempo dai gesti bianchi di Dwight Davis sopravvissuti fino ai tempi di Nicola Pietrangeli e quasi a quelli di Adriano Panatta. Come tante cose della nostra vita, il tennis – come l’abbiamo conosciuto ed a cui ci siamo appassionati sin da quando da sport d’elite si é trasformato in sport di massa – è andato ormai nell’archivio storico. Anche se non è detto che lo sport che gli è subentrato finisca per avere lo stesso fascino.
Chissà se la vecchia insalatiera rimessa a lucido con i prodotti del gruppo Kosmos quel fascino che ci teneva svegli per aspettare le immagini in bianco e nero provenienti dall’altro capo del mondo riuscirà a mantenerlo. C’é chi dice che la gestione Piquè è già agli sgoccioli.
In ogni caso, grazie Italia, grazie Volandri, Sinner & c. La racchetta del babbo era rimasta laggiù, in cantina, in attesa che tornasse il suo momento. Ed il momento grazie a voi è tornato. Ma che tristezza e che nostalgia, lasciatecelo dire, per la povera vecchia Coppa Davis.
P.S. Ci associamo alla dedica di Yannick Sinner a Tatiana Garbin, che in questo momento sta giocando sul tavolo operatorio il match più difficile della sua vita.
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