All’alba del giorno in cui il Partito Democratico torna al potere, il sole sorge illuminando come prima cosa il saluto con cui i suoi figli migliori si rivolgono al paese i cui interessi esso si accinge a riprendere in mano. W IL PD, W LE FOIBE, campeggia a Genova fuori degli stands della locale Festa dell’Unità (si chiama ancora così).
E’ il giorno della fiducia a chi non ne merita, al governo che già Costantino Mortati (*) poneva al di fuori della legge già nel 1958, con buona pace del presidente della repubblica, di quello del consiglio e di tutti coloro che la vulgata ufficiale successiva all’8 agosto vorrebbe presentare al popolo italiano come galantuomini.
Il popolo italiano stavolta è altrove. Sempre in quel di Montecitorio, dove nel chiuso del palazzo sede della Camera dei Deputati va in scena lo spettacolo di arte varia che precede il primo voto di fiducia, quello più facile perché PD e 5 Stelle hanno lì dentro una maggioranza solida. Illegittima, ma solida. Ma il popolo, dicevamo, stavolta si ferma fuori dei portoni sprangati dal potere.
Della diretta televisiva (peraltro limitata all’emiciclo) interessa a pochi. I riflettori sono tutti sulla manifestazione che Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia hanno organizzato all’esterno per dare voce al popolo italiano, ed a cui si sono aggiunti dapprima la Lega e poi tutti coloro a cui questo riavvicinamento operoso tra gialli e rosé proprio non è andato giù.
Manifestazione di parrucchieri, hanno liquidato sprezzantemente il rassemblement popolare alcuni esponenti del PD. E’ il primo assist a Giorgia Meloni, che dal palco ha buon gioco a replicare: «i parrucchieri si guadagnano da vivere molto più onestamente che i parlamentari democratici e grillini». E’ un fiume in piena, la capitana di FdI. Così come è un fiume in piena la gente che affolla la piazzetta di Montecitorio e le strade e piazze limitrofe.
Qualcuno parla di quattro gatti scesi in piazza, di flop. Gli organizzatori parlano di 30.000 persone presenti alla manifestazione, e ad occhio e croce ci sono tutte. Le bandiere tricolori tracimano anche nelle strade adiacenti alla piazza, mentre giunge notizia che le Autorità per motivi di ordine pubblico hanno negato il permesso nelle altre piazze limitrofe. Viene da chiedersi se abbiano negato anche il permesso alle dirette TV, perché dei sette canali che si piccano ancora di esercitare il servizio pubblico di informazione non ce n’é uno che abbia piazzato una telecamera fuori da Montecitorio.
Per sapere cosa succede, bisogna affidarsi alle dirette effettuate dai militanti della Lega e di FdI. Le uniche immagini che trapelano sui network informativi pubblici, o presunti tali, sono quelle che mostrano un gruppetto di cinque persone che fanno il saluto romano. Si tratta di una foto che ben presto si rivela vecchia, taroccata, ma fa comodo per dire – come faranno più tardi in aula Delrio ed altri deputati di pari onestà intellettuale – che grazie alla nuova maggioranza è finito il tempo in cui da queste parti la democrazia non c’era e «non si poteva neanche parlare».
Se quel tempo è finito, o se mai finirà davvero, è grazie piuttosto a questa marea di gente per strada, a queste forze politiche che si ricompattano all’opposizione (con l’eccezione di Forza Italia che fa un cerchiobottismo di cui soltanto Silvio Berlusconi conosce le ragioni reali), ai leader che arringano questa folla e poi trovano anche il coraggio di scendervi in mezzo. Bel fegato, considerato che la situazione sarebbe ideale per l’insano gesto di qualche sconsiderato armato da ignoti (magari poi da esecrare unanimemente e nello stesso tempo da spiegare con il clima di odio creato dalle stesse vittime).
Non succede niente, la gente agita soltanto i tricolori e sfoga con slogan la sua rabbia. Ciò che conta è far sapere urbi et orbi che il paese reale è il più distante possibile da quello che si arroga di essere legale. Che la maggioranza che si vota dentro il Palazzo non è quella che esiste nel Paese. Che questo Conte sarà il premier soltanto di una èlite attaccata alle poltrone fintanto che, come dice Giorgia Meloni, reggerà la colla con cui vi si sono appiccicati. Che se proveranno a invertire la rotta tracciata nei quattordici mesi passati in materia di sicurezza, porti chiusi, quota cento e quant’altro richiesto dagli italiani, come dice Salvini troveranno gli italiani stessi che non consentiranno loro di uscire da quei palazzi dove si sono asserragliati, come i signori al tempo della Peste Nera.
Tutto questo succede mentre nell’emiciclo parla Giuseppe Conte. L’avvocato non più del popolo ma di se stesso vorrebbe fare il professorino, e nel corso del suo lunghissimo, tediosissimo, e sussiegosissimo discorso intenderebbe dare lezioni di etica e di diritto pubblico a tutti, soprattutto agli ex alleati della Lega, come già in occasione di quello del 20 agosto. Dell’ultimo ribaltone, ad oggi, della storia d’Italia.
Mal gliene incoglie. Dalle repliche gli arriva già una prima salva di improperi, il più gentile ed accondiscendente dei quali lo taccia di traditore. Quando la replica tocca a lui, dell’aplomb professorale e da maestro di bon ton sfoggiato in mattinata è rimasto ben poco. Il bel Giuseppe perde spesso le staffe alle sempre più frequenti – ed inevitabili – interruzioni. Da Padre Costituente si trasforma in pessima imitazione di Albertone fino a commettere il più marchiano degli errori, imperdonabile per uno come lui abituato a parlare in pubblico: mettersi in conflitto dichiarato con la platea. Piccarsi a ribattere colpo su colpo alle invettive, che da «poltrone, poltrone» diventano alla fine apertamente «buffone, buffone».
Il professore prestato alla politica finisce in difesa, a replicare agli epiteti ed ai battimani ironici indirizzatigli dai banchi del centrodestra con scatti di nervi e offese gratuite ed indimostrabili, ad insistere con una narrazione degli eventi dell’ultimo mese che perfino quelli della sua parte sanno essere di parte.
La storia è andata diversamente, e quando tocca alle controrepliche il Conte of Florence viene rimesso a sedere senza tanti complimenti, dapprima da Giorgia Meloni, poi dal capogruppo leghista Riccardo Molinari. La leader di Fratelli d’Italia porta dentro alla Camera dei Deputati lo spirito della piazza da lei stessa evocato poche ore prima. Pochi concetti ma efficaci: «siete come quelli che entrano di notte a rubare nelle case della gente». La Giorgia nazionale ignora quasi il Conte-bis, rimanendo sul concetto generale che separa ufficialmente l’Italia dei truffatori da quella dei truffati, la Casta ed il Popolo.
Semmai, un paio di ceffoni li indirizza con nonchalance al volto di Luigi Di Maio, trattato a più riprese come un omm’e niente, come dicono dalle sue parti. L’ex capo politico dei 5 Stelle (potremmo dire l’ex uomo politico, in assoluto) le restituisce un paio di sorrisetti che vorrebbero tanto sapere di furbizia partenopea, e sanno piuttosto invece di ragazzotto capitato in un posto ed in un gioco più grandi di lui.
Poi è la volta di Molinari, che nell’occasione supera addirittura il maestro Salvini, assente in quanto senatore. L’oratoria è veemente, e la foga dialettica non ha nulla da invidiare a quella sentita poche ore prima in piazza. Conte incassa, come un pugile suonato, all’angolo. «Noi siamo stati eletti, lei no! Porti rispetto quando si rivolge a noi, e ci risparmi le sue lezioni di diritto!», tuona il capogruppo della Lega, dopo aver spiegato le vere ragioni della crisi dell’8 agosto.
Quando comincia la votazione sulla fiducia, calano ormai le prime ombre della sera che viene a chiudere questa lunga e drammatica giornata, la prima di una fase politica che farà piacere di vivere soltanto a chi la trascorrerà seduto su una poltrona su cui non aveva nessuna legittimità a sedersi. Diffidate da chi vi dice il contrario, costituzionalista o meno.
Diffidate anche da chi vi dice che quella dentro Montecitorio c’è l’Italia. L’Italia, quella vera, è rimasta fuori, ed è tornata a casa da ore, lasciando lo spettacolo di marionette ad altri, ai giornalisti quasi tutti in quota a precedenti amministrazioni di sinistra, ai magistrati che lavorano a fascicoli aperti soltanto per motivi di disturbo («nei prossimi mesi dovrò comparire in tribunale diverse volte», ha avvertito Matteo Salvini salutando la piazza, rimandando alla prossima adunata del 19 ottobre e chiedendo una mano a Giorgia che ricambia quel «mio amico Salvini» da lei indirizzatogli la mattina a mo’ di saluto e che vale un’alleanza per il futuro).
Tra l’art. 1 (il popolo sovrano) e l’art. 54 della Costituzione (l’assolvimento con onore delle funzioni pubblche) si gioca la partita a proposito del destino di questo paese nei prossimi mesi. Il popolo ha già fatto vedere da che parte sta. Ma il popolo, come ha soolineato efficacemente Giorgia Meloni, in questo momento non conta niente. Non è il datore di lavoro del suo governo. Gli paga lo stipendio e basta.
Parafrasando Winston Churchill, la battaglia di Grillo, Conte, Zingaretti e Renzi è finita. Comincia la battaglia d’Italia.
(*) «Compito del Presidente della Repubblica è quello di accertare la concordanza tra corpo elettorale e parlamentare. Assolve a tale ruolo attraverso l’impiego dell’istituto dello scioglimento anticipato, quando vi siano elementi tali da renderlo necessario o anche solo opportuno in termini di gravi disarmonie fra attività degli eletti e sentimento del popolo.» (Da Istituzioni di Diritto Pubblico di Costantino Mortati, Cedam 1958, pagine 369-370).
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