Carlo Alberto di Savoia firma lo Statuto il 4 marzo 1848
Il 4 marzo 1848 il re di Sardegna Carlo Alberto di Savoia finalmente si decise, promulgando lo Statuto che per i successivi 100 anni avrebbe portato il suo nome e che sarebbe diventato la Legge Fondamentale di una patria che lui aveva potuto soltanto sognare e intravedere.
Nelle prime settimane di quell’anno, l’assetto europeo voluto dal Congresso di Vienna più di 30 anni prima era saltato finalmente per aria. A Vienna i rivoltosi liberali avevano messo in fuga Metternich, il garante della Restaurazione. Ed il vaso di pandora del liberalismo si era scoperchiato. A Parigi i repubblicani misero in fuga i monarchici di Luigi Filippo d’Orleans e lo stesso re borghese, innalzando sulle barricate un nuovo leader che portava un nome fatto apposta per eccitare gli animi sull’onda di ricordi gloriosi: Bonaparte. Luigi, che di secondo nome portava quello evocativo e fino ad allora impronunciabile dello zio, Napoleone.
In tutta l’Italia divisa tra possedimenti dell’Austria e ducati da essa controllati a non troppa distanza, la febbre costituzionale si diffuse a macchia d’olio, in attesa che un capo si facesse avanti a dichiarare la guerra d’indipendenza. Il granduca di Toscana, il re di Napoli, perfino il Papa Pio IX, fino a quel momento considerato (con un po’ troppa fretta, come avrebbero dimostrato i successivi eventi) il Papa liberale, si affrettarono a concedere una costituzione, sperando che ciò bastasse a salvare i rispettivi troni.
Carlo Alberto di Savoia ramo Carignano fu l’ultimo a farlo. Malgrado da giovane avesse simpatizzato per i primi moti liberali e irredentisti, il lungo esilio punitivo impostogli dal’autoritario re zio Carlo Felice lo aveva segnato più di quanto non desse a verere. Non era convinto di ciò che faceva, non pienamente, la mattina in cui appose la firma sullo Statuto. Non una Costituzione, ma uno Statuto. Ambedue erano Carte ottriate, cioé concesse dalla benevolenza dei sovrani e non conquistate dal popolo come stava succedendo per la terza volta in Francia. Erano comunque un gran passo avanti rispetto alla lunga coltre di piombo imposta a Vienna nel 1815, i liberali potevano finalmente respirare e farsi avanti. Il resto lo avrebbero fatto le insurrezioni.
Con lo Statuto, Carlo Alberto aveva voluto limitarsi alla statuizione – appunto – di pochi principi, lasciando la mano del potere regio – cioè il proprio – più libera possibile. Timoroso ma al tempo stesso impulsivo, il re di Sardegna non avrebbe esitato granché a rispondere all’appello dei milanesi insorti nelle Cinque Giornate, a varcare il Ticino (il confine del regno con il vicereame imperiale austriaco del Lombardo – Veneto) e a scatenare la Prima Guerra di Indipendenza. Ma in quanto ad aperture costituzionali, il suo Statuto concedeva ben poco, oltre al principio che il governo avrebbe progressivamente dovuto dipendere sempre più dal favore del popolo, oltre che da quello regio.
La guerra andò come tutti sanno, con la sconfitta e l’esilio a Oporto, in Portogallo. Il primo dei due a cui i Savoia sarebbero stati costretti nella loro breve storia di sovrani non più piemontesi, ma dell’Italia riunificata. Il re abdicò in favore del figlio VittorioEmanuele II, e andò a morire sulle sponde dell’Atlantico. Il figlio, ben consigliato dal genio del conte Camillo Benso di Cavour, ebbe l’intuizione felice di mantenere lo Statuto Albertino, mentre la restaurazione austriacante imponeva dovunque la revoca delle Costituzioni quarantottine. Per questo solo motivo, il Piemonte pur sconfitto rimase un faro di libertà e di futuro irredentista non solo per l’Italia, ma anche per l’Europa.
Lo Statuto era destinato a rimanere nella storia come la più vecchia carta fondamentale del continente, dopo quella inglese (peraltro non scritta). Essendo tra l’altro flessibile (cioé modificabile con semplice legge ordinaria, a differenza delle moderne costituzioni rigide, come la nostra attuale), la legge fondamentale del regno di Sardegna mostrò una singolare adattabilità alla storia successiva, dopo essere diventata senza difficoltà quella del Regno d’Italia.
Era una Carta costituzionale che aveva pregi e difetti, entrambi alla fine determinanti per il suo destino. Lo Statuto manteneva in capo al re la prerogativa di nominare presidente del consiglio e ministri, malgrado poi essi dovessero avere la fiducia del parlamento prima sabaudo e poi italiano. Ciò comportava per il sovrano un potere esclusivo di iniziativa, che le vicende del Regno d’Italia non avrebbero potuto stemperare. Anzi, nel momento della massima crisi, nell’ottobre del 1922, la prerogativa regia perfettamente costituzionale del re che conferiva l’incarico di governo a sua discrezionalità permise a Vittorio Emanuele III di nominare ilcapo del Fascismo Benito Mussolini con atto perfettamente legittimo, malgrado la sua candidatura fosse scaturita da una marcia sovversiva, quella su Roma delle squadracce, e non da una dinamica elettorale o parlamentare.
Allo stesso modo, il 25 luglio 1943 la destituzione di Mussolini fu un atto di iniziativa regia di altrettanta validità legale, preceduto dalla sfiducia votata dall’organo costituzionale denominato Gran Consiglio del Fascismo, e malgrado avesse bisogno – data la situazione paricolare e delicata – di essere sostanziato dallo stato di arresto in cui fu posto l’ex Duce del Fascismo subito dopo uscito dal Quirinale.
Fu proprio questa flessibilità – che secondo alcuni salvò in qualche modo l’Italia consentendole l’opportuno per quanto mal gestito Armistizio, a risparmiarle il destino ancora più tragico della Germania e del Giappone. Allo stesso modo, fu propro essa a consigliare i padri costituenti nel 1946 circa l’opportunità che l’Italia avesse bisogno di una Costituzione diversa, più rigida e garantista riguardo ai poteri degli organi fondamentali e ai diritti altrettanto fondamentali dei cittadini.
E così, il vecchio Statuto Albertino in nome di cui i patrioti avevano combattuto nelle guerre risorgimentali affinché diventasse la costituzione dell’Italia unita, andò in pensione 99 anni, 11 mesi e 27 giorni dopo la sua promulgazione, avvenuta per effetto della firma apposta dalla mano tremante di un re d’Italia il cui ultimo discendente avrebbe seguito lo stesso destino: l’esilio, non più ad Oporto, ma a Cascais, sempre in Portogallo.
Il 1° gennaio 1948 entrò in vigore la nuova Costituzione, Vittorio Emanuele III e suo figlio Umberto II erano già in esilio da due anni. E l’Italia era diventata una Repubblica.
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