(Nella foto, Umberto Bossi e Matteo Salvini)
«Il tempo gioca con la nostra maglia», twitta Matteo Renzi gongolando a proposito delle disgrazie della Lega Nord e della sempre maggior confusione che regna attorno all’indagine Consip che sembrava potenzialmente decisiva per determinare le disgrazie sue e della sua famiglia. Il tutto a ridosso ormai di elezioni che si preannunciano epocali come quelle di settant’anni fa.
Nel 1948 fu stabilito un sistema politico che perdura ancora adesso, pur tra crisi, sconquassi, trame rosse e nere e mani più o meno pulite, attraverso ben tre repubbliche. O forse la stessa repubblica riveduta e corretta da demiurghi come quel Sergio Mattarella che vanificò il referendum sul maggioritario nel 1993 o quel Calderoli che escogitò la porcata o lo stesso Renzi della Legge Acerbo bis denominata Italicum.
Nel 2018, spinto in un angolo dalle condizioni sempre più critiche in cui l’ha ridotto la sua classe politica e dal disgusto misto alla paura provocati da diversi gravi fatti d’attualità, i vecchi italiani che non si rassegnano a lasciare il posto ai nuovi senza combattere potrebbero compiere finalmente quella rivoluzione legalitaria che fu l’occasione mancata degli anni 1992-93 e scrivere la parola fine sotto la centenaria storia del partito che ha condizionato più di ogni altro la nostra vita politica nel dopoguerra e la decennale storia della sua ultima filiazione, il Partito Democratico che ha realizzato – con gli avanzi di magazzino – quel Compromesso Storico soltanto abbozzato da Enrico Berlinguer.
Ma un sistema, qualcuno lo chiama regime e non ha tutti i torti, non cede mai senza combattere. Il PD di Renzi ha da poco completato il percorso storico di occupazione del potere in tutte le sue sedi, da quelle tre classiche individuate da Montesquieu a quella aggiuntasi in epoca più moderna, il quarto potere, la stampa, o più in senso lato il mondo dei media e dell’informazione. Questo PD è consapevole che se lascia le leve di questo potere non le riprenderà in mano mai più.
Per questo tenta a tutti i costi la strada dei nuovi italiani, leggasi concessione indiscriminata dello Jus Soli. Per questo gongola quando arrivano gli aiuti arbitrali, secondo una metafora calcistica che pare azzeccata. Le prossime elezioni infatti rischiano di essere come gli ultimi campionati di calcio: si sa chi vince già all’inizio, in questo caso prima dell’apertura dei seggi.
Un Berlusconi ancora nei suoi panni era solito dire che quella italiana è una giustizia ad orologeria. Che più che di Magistratura Democratica era il caso di parlare di «Magistratura Comunista», o comunque di «Magistratura schierata con il Partito Democratico». Appare sempre più difficile dargli torto. A pochi mesi dall’apertura degli agognati seggi, e dal prevedibile ciaone che Renzi & C. potrebbero e dovrebbero ricevere dal popolo finalmente messo nella condizione di non votarli, ecco che guarda caso arrivano ad esito giudiziario alcune inchieste che si trascinavano da tempo, e che rischiano di scompigliare le carte in maniera irreparabile, quanto iniqua.
Giunge infatti adesso ad esecutività il decreto con cui il tribunale di Genova il 24 luglio scorso, condannando Bossi e Belsito per sottrazione di fondi pubblici e corruzione, aveva disposto il sequestro dei beni della Lega Nord fino alla concorrenza di 48 milioni. Calcolata in 56 milioni l’entità della somma sottratta dal segretario Bossi e dal tesoriere Belsito al finanziamento pubblico ed al loro stesso partito (essendo stato accertato che lo stesso Bossi avrebbe utilizzato gran parte dell’ingente somma per spese personali e di famiglia), la sentenza di primo grado ha ritenuto di colpire la Lega Nord, fino a prova contraria parte lesa ancorché non costituitasi in parte civile, rendendole di fatto impossibile condurre alcuna attività politica nel prossimo periodo. Diversi segretari regionali infatti hanno avuto la sgradita sorpresa di vedersi rifiutato dalle rispettive tesorerie l’accesso ai propri conti correnti. Matteo Salvini ha un bel denunciare «l’attacco alla democrazia senza precedenti», il potere giudiziario va a dritto per la sua strada, nell’indifferenza generale dei media e dei vari Davigo sempre pronti a stigmatizzare malfunzionamenti e storture negli altri poteri dello Stato.
Dall’altra parte, giunge a maturazione l’immane casino in cui si sta risolvendo l’inchiesta Consip, ormai ridotta ad una specie di scena del delitto di Cogne, dove tutti hanno pesticciato lasciando le proprie impronte fangose: dal PM arruffone e malato di protagonismo – queste le accuse rivoltegli dallo stesso C.S.M. che lo sta indagando – al carabiniere cialtrone – così definito da tutti gli organi di stampa – che avrebbe reso ormai inservibile il materiale raccolto durante l’intercettazione telefonica della famiglia Renzi.
Per una Lega che piange dunque c’é un PD che pare tirare un sospirone di sollievo vedendo spiragli di luce inattesi, o forse attesi ma soltanto a livello di desiderio, di auspicio. E c’é sempre lei, la giustizia ad orologeria che normalmente ha tempi biblici nell’arrivare a sentenza ma che in certi casi ci arriva sempre in concomitanza di momenti critici ed eventi epocali della nostra vita politica.
E si ritorna così alla vecchia presa di posizione di Silvio Berlusconi. Il quale, una volta, avrebbe tuonato contro l’attacco sferrato di fatto a quella forza che era la sua principale e naturale alleata, la Lega Nord, ma che adesso forse tace in ottemperanza al cambio di rotta maturato dentro di sé, poiché adesso le sue alleanze va a cercarsele altrove, al Nazareno ed in quei centri di potere europei che nel 2011 per poco non gli hanno sfilato la Fininvest dalle mani, e che ci hanno riprovato poco tempo fa. Senza contare la giustizia, che ormai probabilmente per Berlusconi è semplicemente un can che dorme, da non risvegliare più, se possibile.
Resta valido anche l’altro assunto del Cavaliere, i media italiani sono schierati in ossequio all’egemonia culturale della sinistra, e non perdono occasione per dimostrarlo. La tensione morale – si fa per dire – che si percepisce è tutta per una ripresa del PD che sembrava moribondo, avendo fatto di tutto per perdere le prossime elezioni, a fronte di una destra che sta facendo ora di tutto per non vincerle. In mezzo, i poveri – si fa per dire, anche qui – Cinque Stelle, alle prese con le primarie e con la leadership Di Maio che scatenano frizzi e lazzi che meriterebbero forse ben altri bersagli.
«Primarie Cinque Stelle, Di Maio contro il nulla, è un derby», sfotte il PD. Dare dell’incapace a uno che ancora non ha governato un giorno, quando si ha in casa, al timone, un incapace che ha governato, anzi sgovernato due anni, è un ben misero esercizio di umorismo. E francamente, forse, a ridere é solo la famiglia Renzi.
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