L’Unione Europea boccia la manovra economica italiana. Non è la prima volta, ebbe da ridire addirittura della tisana annacquata di Enrico Letta, che tra parentesi a seguito della bocciatura annacquò ulteriormente la sua mistura insipida chinando il capo all’Europa che per l’ennesima volta chiedeva. Sacrifici, lacrime e sangue, come sempre.
Non è la prima volta in assoluto, dunque, ma è la prima volta che ciò avviene con la velocità con cui un Nadal o un Federer rimandano la palla di là dalla rete. E per motivi francamente insostenibili, se è vero che il dito di Moscovici e dei suoi compari è puntato verso alcuni provvedimenti specifici che farebbero sorridere, se non ci fosse da piangere, e da tempo.
A quanto pare, la sopravvivenza della supernazione continentale (il sogno dei primi tre Reich tedeschi e l’incubo di chi da secoli si aspetta puntualmente di vederli calare a sud) dipende indissolubilmente dalla sopravvivenza della Legge Fornero (il sistema pensionistico per cui milioni di cittadini di questo paese dovrebbero sopravvivere senza mezzi di sostentamento, una volta usciti dal circuito del lavoro), o da uno 0,6% di punto di disavanzo rispetto al PIL (la cui misurazione è notoriamente assimilabile all’operazione con cui si stabilisce il sesso degli angeli), o dagli investimenti pubblici che aumentano il debito pubblico ( si chiamerebbe economia keynesiana, chissà se nelle varie Bocconi d’Europa la insegnano più).
C’è da ridere, se non ci fosse da piangere. Ci sarebbe da ridere alla vista del ditino sollevato stizzosamente dal commissario della polizia morale europea Pierre Moscovici, o della faccia da sbevazzone di Jean-Claude Juncker che si rianima dalla sua catatonia solo quando sente nominare Matteo Salvini. Ci sarebbe perfino da sorridere alla vista del parlamentare leghista Angelo Ciocca, che prende le carte di Moscovici e ne fa quello che ne vorrebbe fare la maggioranza degli italiani (e non solo): una palla.
Al di fuori dei siparietti, la bocciatura europea, ancorché fondata su motivi che più ridicoli non si può (o forse a questo punto è l’intero Trattato di Maastricht ad essere diventato ridicolo), era ampiamente attesa. Così come erano attese le reazioni delle parti (italiane) in causa. Quella del PD, ormai trasformato in una gigantesca Leopolda dove si sparano sciocchezze ogni giorno più roboanti. Quella di Sergio Mattarella, che non sta mai zitto e figuriamoci se perdeva l’occasione più succulenta di mettersi regolarmente contro il proprio paese. Quella delle altre opposizioni da parrocchietta, come quella di Forza Italia affidata alla portavoce Gelmini ed al suo inesauribile tunnel di neutrini, o quella di Giorgia Meloni, che a volte sembra dimenticarsi che il paese è una entità più complessa di certe borgate romane.
Quella, grazie al cielo, della coalizione di governo, che non batte ciglio e, con aplomb che eravamo abituati a considerare più britannico che nostrano, liquida la faccenda con un «ci confronteremo, ma poi andremo avanti e non cambieremo nulla». Della manovra, sottinteso.
Giuseppe Conte si dimostra sempre più un valore aggiunto di questo governo gialloverde che presiede. Sembra nato per fare lo statista, dotato di capacità di sintesi, di diplomazia, di un certo carisma – appunto – anglosassone a cui non eravamo abituati e che sta portando a casa risultati in serie. Sarà che viene dopo il venditore di pentolame Renzi o dopo l’animatore da casa di riposo per anziani (con rispetto parlando degli anziani) Gentiloni, ma è un piacere ed un sollievo scoprirlo ogni giorno di più adatto alle necessità attuali della nazione, accerchiata in questo momento da nemici interni ed esterni e bisognosa del tempo necessario ai due leader Di Maio e Salvini di farsi la necessaria esperienza e cultura di governo.
Il premier non si scompone, e annuncia o fa capire che l’Italia stavolta non piegherà il capo, e non ha bisogno dei moniti che le vengono dal Palazzo di Vetro della UE, dal Quirinale, dalle Leopolde o da qualsiasi altra parte avversa. Non ne ha bisogno perché sono inutili. John Maynard Keynes ha mostrato l’unica via che può tirare fuori il paese (ed il continente) da una crisi epocale, e prima o poi gli dovremo intitolare una piazza in ogni capoluogo d’Italia, se sopravviveremo. Ogni altra alternativa preserva soltanto una élite parassitaria e sterminatrice di popoli (di razza caucasica).
Il problema di Maastricht, di Strasburgo, di Bruxelles e dei signori che vi svernano attaccati alle prebende comunitarie è proprio questo. Se l’Italia sopravvive a questa luna di miele al contrario che tutti i poteri forti dell’ancien regime le hanno riservato, per la UE è finita. L’anno prossimo i DEF presentati in assoluto e giustificato disprezzo di quella boiata pazzesca (per dirla fantozzianamente) che è il patto di stabilità ed il vincolo del tre per cento di indebitamento annuale saranno molti di più.
E’ la UE che rischia la procedura di infrazione, e senza appello, e che per Maastricht suoni presto e inevitabilmente la meritata ultima ora, con buona pace di chi l’aveva sognata a Ventotene (ma non crediamo che nel Manifesto famoso ci fosse scritto di doversi ritrovare un giorno sotto un Quarto Reich economico), o a Roma all’epoca dei primi trattati comunitari.
Se i Pierre Moscovici di questo continente hanno paura di qualcosa, non è della riforma della Legge Fornero, ma dell’eventualità sempre meno remota di doversi trovare qualcosa da fare dopo le prossime elezioni europee del maggio 2019. Nel bel mezzo di un continente che proverà per loro sentimenti sempre meno amichevoli.
Sergio Mattarella non corre di questi rischi, teoricamente ha altri quattro anni di ingaggio, è più blindato di Donnarumma al Milan. Gli consiglieremmo tuttavia di andarci piano, almeno con certi richiami alle necessità di bilancio. Non vorremmo che il primo taglio da operare per farvi fronte fosse proprio il suo appannaggio. Non è soltanto Beppe Grillo ad avere dubbi ormai sulla sua utilità.
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