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L’ultimo imperatore

(Nella foto Thomas Brodie-Sangster nei panni di Romolo Augustolo/Re Artu nel film L’ultima Legione, tratto dal best seller di Valerio Massimo Manfredi)

Per una di quelle coincidenze apparenti e venate di ironia di cui la Storia è piena, l’ultimo signore di Roma antica ebbe lo stesso nome di colui che ne era stato il primo, e che aveva dato il nome alla città stessa. Romolo, che i contemporanei avrebbero chiamato spregiativamente Augustolo, il piccolo Augusto, a sottolinearne la giovanissima età (era un ragazzino di quattordici anni quando il padre Oreste, il barbaro diventuo magister militum, comandante in capo dell’esercito romano, lo aveva posto sul trono imperiale a Ravenna) e nello stesso tempo l’assolutamente ineffettivo potere.

Era il 31 ottobre del 475 d.C., da tempo l’Impero Romano era diviso in due parti, da quando Costantino il Grande ne aveva constatato l’ingovernabilità fintanto che permaneva l’accentramento del governo a Roma, la caput mundi che era diventata ingovernabile di suo da tanto che era cresciuta nella estensione e nella popolazione.

L’Impero d’Oriente era trasmigrato a Bisanzio, ribattezzata Costantinopoli, ed in quell’anno fatidico in cui ad ovest salì al trono colui che sarebbe passato alla storia come l’ultimo Imperatore d’Occidente vi regnava un sovrano dal nome greco, il basileus Zenone. La storia delle due metà del vecchio dominio romano stava prendendo strade diverse.

Ravenna, mausoleo di Galla Placidia risalente agli ultimi decenni dell'Impero

Ravenna, mausoleo di Galla Placidia risalente agli ultimi decenni dell’Impero

La capitale della parte occidentale stessa era stata spostata a Ravenna, città che si riteneva più efficacemente difesa dalle paludi che si estendevano al di sotto del delta del Po che da ciò che restava dell’esercito che una volta aveva conquistato tutto il mondo conosciuto, o del corpo di pretoriani che al pari di quell’esercito non avevano ormai più nulla che li distinguesse, nell’aspetto e nei modi, da quei barbari da cui avrebbero dovuto proteggere l’ultima fragile vestigia di un antico e glorioso potere che non esisteva ormai più.

aquilaromana181031-001I barbari erano penetrati da tempo nel territorio dell’Impero Romano, in ondate migratorie incostanti ma spesso impetuose a cui all’inizio del quinto secolo aveva dato impulso lo sconvolgente e devastante affacciarsi sul continente europeo dei selvaggi Jung Nu, gli Unni di Attila, spinti verso ovest dalla Grande Muraglia cinese che aveva chiuso la strada ad est alle loro razzie. A differenza di quello cinese, il limes romano, il confine, era costituito soltanto dalle legioni e dalle loro fortificazioni, ed era venuto meno insieme alla loro forza effettiva ed al progredire della disponibilità della società romana ad accogliere popolazioni arretrate che si illudeva di poter usare a lungo per far fare loro tutto ciò che i cittadini romani non volevano fare più. A cominciare dal servizio militare.

Era stato un processo lungo, che in quell’anno domini 475 era pronto per giungere a maturazione. A quel tempo, gli unici eserciti fisicamente presenti nella penisola e nel vecchio territorio imperiale di là dalle Alpi erano le orde barbariche tra le quali non si distingueva quasi più chi avesse le insegne imperiali e chi invece quelle della tribù da cui proveniva.

L'ultimo imperatore d'occidente

L’ultimo imperatore d’occidente

Flavio Oreste aveva deposto il penultimo imperatore, Giulio Nepote, sostituendolo con il figlio Romolo. Non era il primo barbaro che saliva sul trono dei Cesari, ma il gesto era parso eccessivo in un momento in cui altri barbari reclamavano ufficialmente la loro parte di quel potere. Una parte che assomigliava sempre più al tutto. Come un tempo avevano fatto i legionari di Cesare ed Augusto, chiedevano in cambio dei loro servigi la concessione anche sul sacro suolo italiano (che perfino Cesare stesso aveva esitato a calpestare in armi ai tempi del Rubicone) di appezzamenti di terreno di proprietà di cittadini romani per stabilirvisi.

Oreste aveva detto no, per non scontentare il Senato e ciò che restava delle istituzioni e del vecchio establishment di un mondo i cui scricchiolii ormai si avvertivano sinistramente e fragorosamente. Odoacre re degli Eruli, la tribù in quel momento numericamente più presente e militarmente più forte in Italia, decise a sua volta di trarre un proprio dado, e dopo aver fatto uccidere il padre Oreste, fece deporre e imprigionare il figlio Romolo. Ravenna da fortezza divenne dall’oggi al domani prigione per colui che improvvisamente era diventato imperatore ed altrettanto improvvisamente si era ritrovato nuovamente semplice ragazzo, solo alla mercé di energumeni che non avevano rispetto e considerazione né per lui né per ciò che aveva, sia pure per poco tempo e con scarsa effettività, rappresentato.

Odoacre riceve l'omaggio del deposto Romolo Augustolo

Odoacre riceve l’omaggio del deposto Romolo Augustolo

Era il 4 settembre del 476 d. C., la data che comunemente associamo alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, ed alla fine del Mondo Antico. Il barbaro Odoacre aveva respirato l’aria di quel mondo quanto bastava per desiderare di acquisire una forma legale, giuridica a quello che era stato uno dei tanti brutali colpi di stato di cui era piena la storia romana. La spedizione delle insegne imperiali a Costantinopoli, accompagnata da una lettera del povero Romolo Augustolo scritta sotto dettatura e con la quale costui caldeggiava il ritorno alla corona imperiale unica e la nomina di Odoacre a luogotenente di Zenone, fu un tentativo di compiacere istituzioni che – come il Senato – ormai esistevano solo sulla carta (pur mantenendo formalmente tutti i poteri del tempo di Cicerone) e nello stesso tempo di tacitare un complesso di inferiorità che era insito nella natura del conquistatore barbarico, a cui quelle insegne sulle quali aveva allungato le mani incutevano un sacro timore perlomeno quanto le sue armi ne incutevano alle popolazioni da lui sottomesse. Di fatto a tutti gli effetti re d’Italia, Odoacre si sentì più a suo agio a governarla come magister militum per conto dell’ultimo Imperatore rimasto, quello di Bisanzio.

Teodorico raffigurato in un mosaico ravennate

Teodorico raffigurato in un mosaico ravennate

Seguirono anni convulsi, in cui alle schermaglie giuridiche (secondo qualcuno l’ultimo imperatore legittimo, Romolo Augustolo, non era decaduto finché il Senato di Roma non lo dichiarava tale ed a nulla valeva l’investitura di Zenone a Odoacre) si alternarono quelle militari. Ben presto Costantinopoli individuò nel re degli Ostrogoti Dietrich (Teodorico, che un giorno sarebbe stato chiamato il Grande) un candidato più plausibile del riottoso Odoacre per il mantenimento di una parvenza di legalità imperiale nelle terre perdute di Occidente. Teodorico fece di Odoacre ciò che questi aveva fatto di Oreste, e divenne il secondo re barbarico d’Italia, il primo a non avere pretese di sostituirsi ad un console, ad un imperatore o anche soltanto ad un comandante militare dei tempi andati (per quanto egli fosse imbevuto di cultura latina classica, o forse proprio per quello).

Castel dell'Ovo, Napoli, antico Castellum Lucullanum

Castel dell’Ovo, Napoli, antico Castellum Lucullanum

Era il 493 d. C., a quel punto di Romolo Augustolo, così come dell’Impero di cui era stato l’ultimo legittimo titolare, si erano perse le tracce da tempo. Odoacre l’aveva mandato in esilio nei pressi di Napoli, nella villa che era appartenuta a Lucio Licinio Lucullo, e da quel momento di lui non si era saputo più nulla. Edward Gibbon, nella sua celebre opera sul Declino e Caduta dell’Impero Romano parla della residenza trasformata in monastero verso il 488 d. C., mentre lo storico Cassiodoro parla di un illustre pensionato ospite del Castellum Lucullanum attorno al 507 d. C., quando già da tempo sulla penisola regnava Teodorico.

V. M. Manfredi

Valerio Massimo Manfredi

Alcune leggende medioevali sembrano aver operato una commistione tra il mito dell’ultimo imperatore romano e quello del primo re della Britannia post-romana. E’ la leggenda narrata da Valerio Massimo Manfredi nell’Ultima Legione, allorché immagina che Romolo Augustolo, fatto evadere dalla villa-carcere di Neapolis dagli ultimi pretoriani a lui rimasti fedeli, sia stato portato in Britannia e lì sia diventato Artù Pendragon. La storia, a quel tempo, stava sprofondando nel buio dei secoli barbarici e mischiandosi con una leggenda da cui ormai è impossibile distinguerla.

Della gloria immortale di una città che una volta aveva dominato il mondo facendone un’unica nazione, non restava parimenti che leggenda e nostalgico imperituro ricordo, come quello che Claudio Rutilio Namaziano – ultimo tra i letterati dell’età imperiale – aveva raccolto e rappresentato nel suo commosso saluto alla caput mundi:

«Lontano fin dove si estendono i climi abitabili

verso entrambi i poli la tua virtù trova il cammino.

Hai fatto di genti diverse una sola patria;

la tua conquista ha giovato a chi viveva senza leggi;

offrendo ai vinti l’unione del tuo diritto

hai reso l’orbe diviso un’unica Urbe.»

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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