Sir Winston Leonard Spencer Churchill (Woodstock, 30 novembre 1874 – Londra, 24 gennaio 1965)
«Voi chiedete: qual è il nostro obbiettivo? Posso solo rispondere con una parola. È la vittoria. Vittoria a tutti i costi, vittoria malgrado qualunque terrore, vittoria per quanto lunga e dura possa essere la strada, perché senza vittoria non sopravviveremo».
Quando pronunciò queste parole, davanti ad un Parlamento di Westminster che stava vivendo quella che giustamente è stata definita la sua ora più buia, non poteva avere ragionevolmente idea di consegnarle alla leggenda. Non poteva avere idea – se per questo – nemmeno di essere ancora vivo alla fine di quel mese, o di quello successivo, per come si erano messe le cose per il suo paese e per il mondo intero.
Winston Leonard Spencer Churchill allo scoccare di quell’ora, in quella primavera del 1940, aveva già riempito diverse pagine della storia inglese. Lo attendeva ancora quella che in futuro – un futuro in cui in quel momento credevano soltanto lui e pochi altri – sarebbe risultata la più grande, dopo essere stato richiamato in servizio da un paese che lo aveva dimenticato e disprezzato, per poi ricercarlo e riportarlo in auge quando tutto sembrava ormai irrimediabilmente perduto.
Winston era il figlio primogenito di lord Randolph Churchill, rampollo di una casata – quella dei Duchi di Marlborough – che la storia d’Inghilterra la faceva da secoli. A cominciare dal capostipite, quel John Churchill nominato conte e poi primo duca da Guglielmo d’Orange il re chiamato dall’Olanda per vincere la Gloriosa Rivoluzione, salvare l’Inghilterra dal cattolicesimo e l’Europa dall’egemonia di Luigi XIV. Missione che era stata brillantemente compiuta, il Sole del Re di Francia era stato definitivamente oscurato a Blenheim, battaglia decisiva della Guerra di Successione Spagnola dove Chruchill, assieme ad un altro condottiero passato alla storia con il nome di Eugenio di Savoia, inflisse ai francesi – la Wehrmacht dell’epoca – una sconfitta da cui non si sarebbero più ripresi, almeno fino a Napoleone.
Sui possedimenti concessigli dalla regina Anna, cognata di Guglielmo d’Orange la quale ne aveva ereditato la corona britannica alla sua morte, il duca di Marlborough aveva fatto costruire un palazzo in grado di rivaleggiare con quello del duca di Buckingham che un giorno avrebbe ospitato i re d’Inghilterra. Lo chiamò Blenheim House, in perenne ricordo della battaglia che aveva determinato le fortune della sua casata e l’inizio della golden age inglese. Il palazzo sorgeva nei paraggi di un altro, a Woodstock nell’Oxfordshire, anch’esso carico di storia patria. In esso, Elisabetta Tudor figlia fino a quel momento negletta di Re Enrico VIII, aveva atteso trepidante il voto del Parlamento che la dichiarava degna di succedere al padre e di difendere il protestantesimo e la libertà dell’isola.
Il più grande dei primi ministri inglesi nacque dunque il 30 novembre 1874 là dove avevano vissuto la più grande regina ed uno dei più grandi comandanti militari. I Churchill erano stati spesso membri di compagini governative, per lo più liberali. Anche il giovane Winston, dopo una serie di campagne militari in Sudafrica durante i quali si era messo in luce anche come reporter e scrittore di libri e memoriali, sembrò seguire la vocazione di famiglia entrando nel governo di Anthony Asquith e poi in quello di David Lloyd George che portarono la Gran Bretagna alla vittoria nella Prima Guerra mondiale e che tentarono nel contempo di ammodernare il paese e di aprirlo alla giustizia sociale, anche per togliere terreno fertile al bolscevismo che nel frattempo spargeva tra le classi lavoratrici la sua propaganda rivoluzionaria proveniente dalla Russia.
Come Primo lord dell’Ammiragliato, Churchill fu direttamente responsabile del disastro di Gallipoli, che costò fiumi di sangue al Commonwealth britannico e segnò una grave battuta d’arresto nella Grande Guerra (poi rimediata dalle imprese di Lawrence d’Arabia). Come ministro dei successivi governi conservatori (è rimasto celebre il suo aforisma secondo cui «chi non è di sinistra da giovane è senza cuore, chi non è di destra da vecchio è senza cervello»), tentò di opporre alle Trade Unions ed ai Laboristi radicalizzati una linea dura che un giorno sarebbe stata ripresa da Margaret Thatcher, sua grande ammiratrice. Churchill non ebbe sul momento la fortuna che avrebbe avuto la sua epigona, e l’Inghilterra alla fine degli anni venti finì per relegarlo in disparte, screditandolo.
Per tutto il decennio successivo, Winston Churchill fu una Cassandra inascoltata mentre ammoniva i suoi compatrioti a proposito del riarmo tedesco e delle mire neanche tanto nascoste di quell’ex caporale austriaco con quei ridicoli baffetti che era diventato il Fuhrer del Reich di Germania, e che minacciava il continente come il Re Sole aveva fatto ai tempi del suo celebre antenato. Finché, una sera di settembre del 1939, Neville Chamberlain – l’uomo che aveva firmato il Patto di Monaco illudendo l’Inghilterra che bastasse sacrificare la Cecoslovacchia per avere «la pace per il proprio tempo») – lo chiamò di nuovo al governo proprio mentre insieme a quello francese dichiarava guerra alla Germania nazista.
Ma era tardi. La drole de guerre iniziale appoggiata sulla effimera sicurezza della Linea Maginot durò solo pochi mesi. Come avevano fatto già altre due volte, come aveva previsto un generale francese inascoltato per tutti gli anni Trenta quanto Churchill, Charles De Gaulle, a maggio i tedeschi aggirarono la Maginot passando dai boschi delle Ardenne. In men che non si dica, la Battaglia di Francia era finita, cominciava la Battaglia di Inghilterra.
Nei giorni in cui un paese disperato ma determinato comunque a resistere o morire lo nominava premier a furor di popolo, Churchill seppe incarnare alla perfezione con i suoi discorsi solo apparentemente retorici e con il suo esempio di coraggio indomito lo spirito di una nazione che poteva anche rassegnarsi a veder tramontare un passato glorioso ma non certo a chinare la testa ad un conquistatore straniero, cosa che non faceva più dai tempi di Hastings nel 1066.
E’ opinione comune di ogni inglese di ogni generazione che la grandezza di Winston Churchill, rappresentata visivamente da quel segno di vittoria riproposto ad ogni occasione dalle dita della sua mano disposte a V e da quel suo sorriso sornione e molto british che in pubblico non veniva mai meno, sia consistita soprattutto in questo. Non tanto nel vincere una guerra che senza l’alleanza belligerante con gli Stati Uniti d’America (guidati dal suo lontano parente per parte di madre americana Franklin Delano Roosevelt) forse sarebbe potuta finire diversamente. Ma piuttosto nel tenere duro, never surrender, resistere per due lunghi interi anni: il 1940, in cui sembrava che l’estate non sarebbe mai arrivata dopo quella tragica primavera lasciando il posto a quello che Ken Follett ha efficacemente definito l’Inverno del Mondo; ed il 1941 in cui sembrava che – fallito il blitz della Luftwaffe su Londra e abortita l’invasione dell’Inghilterra programmata con l’Operazione Leone Marino – i tedeschi potessero comunque stringere un cappio mortale alla gola degli inglesi con gli U-Boot che tagliavano i rifornimenti americani nell’Atlantico. Finché alla fine il nuovo mondo era arrivato in soccorso del vecchio, con la sua soverchiante potenza militare e industriale, mentre ad est la Russia logorava la Wehrmacht.
Come il suo antenato, Winston Churchill era un capo militare, non un governante per i tempi di pace. Pochi giorni dopo il V-Day, il giorno della vittoria, i suoi compatrioti se ne ricordarono ed alle elezioni politiche gli preferirono – pur tributandogli eterni onore e gratitudine – il laborista Clement Attlee. Era la democrazia per cui lo stesso Churchill aveva combattuto, quel sistema che lui stesso una volta aveva definito pieno di difetti ma senza eguali. L’uomo dalle dita a V ormai aveva fatto il suo, aveva fatto vivere al paese la sua ora più grande, aveva salvato la libertà del mondo, aveva conquistato un posto non nella storia ma addirittura nella leggenda.
Fu tuttavia ancora lui, il vincitore della Seconda Guerra Mondiale, a capire per primo quando e come si sarebbe combattuta la Terza. Fu lui il primo a battezzare la Cortina di Ferro, e a spiegare al mondo che dopo Hitler adesso il nemico era Stalin, e che ancora la battaglia per la libertà era tutt’altro che finita. Anzi, per le sfortunate nazioni dell’Europa dell’Est e di quelle parti di mondo finite nella zona di influenza comunista, cominciava allora.
Al suo funerale, che si dispiegava per le strade di Londra dopo la sua scomparsa il 24 gennaio 1965, fu suonata Greensleeves, la più struggente melodia della storia inglese, degno epitaffio commemorativo di una vita, la sua, e di un impero, quello britannico, di cui lui era stato l’ultimo ed il più epico servitore. La sua statua sorveglia oggi quel Parlamento di Westminster che solo le sue parole erano riuscite a rincuorare, in una ormai lontana primavera del 1940 in cui tutto sembrava giunto alla fine.
«Dovesse l’Impero Britannico durare mille anni, gli uomini diranno sempre che questa è stata la nostra ora più grande»
(Winston Churchill)
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