Attualità

L’ultimo padrino

Una delle leggende più ricorrenti a proposito di Cosa Nostra vuole che quando lo Stato riesce a mettere le mani su un Capo dei Capi al suo posto al vertice della Cupola si è già insediato il suo successore, che magari ha dato una mano a far arrestare il vecchio e ormai scomodo boss. La leggenda in tempi recenti si interseca con la teoria della trattativa (più o meno permanente) tra Stato e Mafia, e si arricchisce con l’andare del tempo di numerosi corollari e aggiunte.

Quando presero Totò Riina, Bernardo Provenzano si mise in grado di succedergli nello spazio di poche ore, quelle sufficienti tra l’altro a far sparire tutto ciò che in mano allo Stato non doveva finire, si accontentasse di aver messo le mani su Totò u curtu, come veniva chiamato, e basta così.

Quando toccò a Binnu u tratturi, o u viddranu (il contadino) come veniva soprannominato per la tenacia e l’implacabile determinazione nel perseguire la mission aziendale, magari con meno smodata e plateale ferocia dell’amico – predecessore, a tutti gli addetti ai lavori fu chiaro che in cima alla Cupola si era già assittato il successore designato da tempo, Matteo Messina Denaro. Per gli amici (pochi), u siccu.

Totò Riina

A vederlo uscire ammanettato dalla clinica La Maddalena di Palermo dove veniva curato (alla luce del consueto sole che riverbera da sempre sui latitanti mafiosi) per i postumi di un tumore e dove i Carabinieri del ROS sono riusciti finalmente a metterlo all’angolo, Messina Denaro appare un vecchio dimesso, con i segni visibili della malattia e della terapia. Quanta differenza con quelle sembianze diaboliche di Riina, dimesso sì mentre veniva scortato in caserma dagli uomini della CRIMOR del colonnello Mori e del Comandante Ultimo, ma con quello sguardo luciferino negli occhi che ha gelato il sangue fino all’ultimo a chi ci ha avuto a che fare. Una bestia feroce, selvaggia, a cui anche il più esperto domatore doveva avvicinarsi con il massimo della cautela e delle precauzioni.

11 aprile 2006, gli uomini del ROS arrestano Bernardo Provenzano

Quanta differenza con quel sorriso beffardo stampato sul volto invecchiato (l’ultima sua foto risaliva a quarant’anni prima) ma dall’espressione assolutamente non doma di Bernardo Provenzano mentre nel 2006 veniva portato via dai Carabinieri dalla cascina dove l’ultimo padrino aveva vissuto tranquillamente per decenni. Come a dire: mi avete preso, ma che credete di aver fatto? non avete fatto nulla!

Messina Denaro era considerato il trait d’union tra la vecchia, feroce, bestiale mafia dei corleonesi, disposti a sbranare nel modo più atroce e sanguinoso possibile qualunque forma di vita si frapponesse tra loro ed i loro scopi, e quella ritenuta più moderna, integrata con le nuove tecniche quasi manageriali di gestione del crimine organizzato come fosse una qualunque altra impresa.

Leggende che si intersecano con altre leggende. Il boss che maneggiava più volentieri – secondo alcuni – il computer piuttosto che la mitraglietta o l’esplosivo è accreditato della seguente affermazione: «ho ucciso tanta di quella gente da riempire un cimitero». Il giovane Messina Denaro era venuto su in un ambiente caratterizzato da una mafia che si muoveva a suo agio tra banche e imprese, il padre era capo mandamento della natia Castelvetrano, in provincia di Trapani, e gestiva gli affari tra tenute agricole, saline e la Banca Sicula, allora il più prestigioso istituto di credito della zona. Il suo padrino di cresima, Antonio Marotta, era stato sì con il bandito Giuliano, ma pare che fosse anche colui che l’aveva tradito e fatto prendere, allorché era diventato troppo scomodo e incontrollabile.

Mafia da signori, eppure quando alla fine degli anni settanta i Corleonesi di Liggio, Riina e Provenzano cominciarono ad impadronirsi di Cosa Nostra scalzando i palermitani come Bontate e Buscetta, il giovane Matteo non esitò ad allearsi con loro, i viddrani, i contadini, così diversi dal suo mondo ma così inarrestabili nella corsa al potere.

Messina Denaro non esitò ad organizzare personalmente gli attentati di Capaci e Via d’Amelio, e fece parte dei gruppi di fuoco che compirono diversi attentati tra il 1991 ed il 1993. In via dei Georgofili a Firenze lui c’era, a Milano e Roma, poco prima e poco dopo, anche. Nel 1992 era arrivato a Roma per attentare alla vita di Giovanni Falcone e del ministro della giustizia Claudio Martelli. Il capo dei capi, Totò Riina, lo richiamò poiché voleva che l’attentatuni fosse eseguito in forma ancora più clamorosa, come avvenne a Capaci.

Chissà dov’è ormai l’agenda rossa del giudice Borsellino. Nel covo perquisito ieri dai Carabinieri non c’era. Quante cose non ci sono, o non sapremo mai. Non tanto se è vero che lo Stato ha trattato più volte con la Mafia, compresa stavolta (se l’ha fatto, giova ricordare che in guerra è ammesso tutto o quasi, e lo Stato italiano la sua guerra con Cosa Nostra nel 1992 la stava perdendo). I compromessi inaccettabili di cui nessuna agenda di nessun colore ci mostrerà mai le prove sono altri.

L’ultima foto era quella in alto a sinistra, poi 30 anni di invecchiamenti ricostruiti al computer. Fino a quella di ieri, al momento dell’arresto (in basso a destra)

Matteo Messina Denaro è stato latitante (alla maniera palermitana, cioé girando liberamente per la città) per 30 anni. Sparì al mondo nel 1993, dopo la cattura di Riina e l’avvio del nuovo corso di più basso profilo di Provenzano. Il record di latitanza resta di quest’ultimo, 40 anni. Messina Denaro affianca Riina al secondo posto. In tutto fanno 100 anni di latitanza. C’é uno stato che ha lavorato tenacemente e brillantemente per anni a far terra bruciata attorno a questo ennesimo ultimo padrino ed infine a catturarlo. C’é probabilmente un altro Stato che al padrino ha offerto ogni sorta di aiuto e copertura. Il porto delle nebbie non si era dissolto dopo aver coperto gli attentati a Falcone e Borsellino, ma questo lo sapevamo.

L’arresto di Matteo Messina Denaro cade quasi esattamente nel trentesimo anniversario di quello di Riina. Non abbiamo modo di sapere se al suo posto in cima alla Cupola mafiosa c’é già seduto qualcun altro. E’ soltanto lecito sperare che se c’é, per prenderlo non ci vogliano altri 30 anni.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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