L’ultima volta, quattro anni fa……
Girls just wanna have fun, cantava Cindi Lauper più o meno all’epoca dell’inizio di questa storia. Non è più così. Le ragazze di oggi reclamano ben altro che il mero divertimento. Vogliono – anche nello sport, compreso quello più maschilista che esista, il calcio – parità di diritti e di stipendi con i ragazzi, e se li stanno conquistando a suon di risultati. Non soltanto in quegli Stati Uniti che stanno festeggiando il loro quarto titolo mondiale femminile in otto edizioni.
E’ una storia americana, vissuta con l’intensità e la velocità con cui solo gli americani sanno vivere e raccontare le loro storie. E’ una storia da cui dovremmo imparare tutti. Le nostre ragazze tricolori l’hanno già fatto, e non a caso questa volta non si sono fermate molto lontane dal podio.
Andò così. Fino agli anni Ottanta, negli Stati Uniti il soccer era considerato un gioco da femminucce. Gli uomini, quelli veri, da tempo immemorabile, giocavano a basketball, a baseball, a quel loro football che, su derivazione dal rugby inglese e contrariamente a quanto avveniva nel resto del mondo, si giocava con le mani anziché con i piedi e bardati come guerrieri d’altri tempi data la durezza degli scontri di gioco.
Quello che noi chiamiamo calcio, nel mondo anglosassone (con l’eccezione singolare della ex madrepatria Inghilterra, che l’aveva reinventato dopo gli esordi medioevali fiorentini) veniva indicato con quella buffa parola, soccer, derivante dalla contrazione di association football, ed era considerato un gioco non adatto agli uomini perché poco virile e troppo lezioso. E quindi lasciato alle donne o alle minoranze etniche come i messicani, nei colleges come nei campetti dei quartieri di periferia delle grandi città.
Con lo spirito intraprendente che le contraddistingue, le donne americane non se lo erano fatte dire due volte, e avevano preso – è il caso di dire – la palla al balzo. Nei colleges, nei suburbs, il women’s soccer aveva preso piede con una rapidità impressionante. Nel 1985, mentre la Federazione internazionale scopriva il calcio femminile e organizzava la prima competizione denominata Mundialito nel paese allora calcisticamente all’avanguardia, l’Italia campione del mondo maschile, gli U.S.A. allestirono in quattro e quattr’otto una rappresentativa nazionale riuscendo a ben figurare. Sconfitte per 1-0 dalle padrone di casa italiane nel loro storico esordio assoluto, le americane chiusero quarte.
Sei anni dopo, il mondo era sottosopra, come era già successo un paio di secoli prima, in una competizione molto più seria e drammatica passata alla storia sotto il nome di rivoluzione americana. Il team a stelle e strisce si qualificò per il primo mondiale femminile organizzato in Cina regolando tra gli altri il Messico per 12 – 0 ed il Canada per 5 – 0, ma soprattutto mettendo in mostra una superiorità di gioco impressionante. Dall’altra parte del Pacifico, la musica non cambiò, gli U.S.A. misero in fila Svezia, Brasile, Giappone, Taiwan e Germania senza che la loro manifesta superiorità venisse messa in discussione. In finale sconfissero l’allora fortissima Norvegia, e di fronte ad un mondo che storceva ancora la bocca di fronte alle donne (ed agli americani) che giocano a calcio, la capitana, capocannoniera e pallone d’oro Carin Jennings alzò nello stadio di Guangzhou la prima coppa del mondo messa in palio dalla FIFA per l’altra metà del cielo.
Da allora, gli U.S.A. hanno vinto altre tre volte (l’ultima domenica), su otto edizioni dei Mondiali disputate in totale. Terzi nel 1995 in Svezia, dove la Norvegia si prese la rivincita (1-0 in semifinale) ed il suo primo titolo, nel 1999 organizzavano il Mondiale in casa propria e non si fecero scappare il bis. Di quella edizione ci ricordiamo lo stadio della finale, il Rose Bowl di Pasadena dove Baggio aveva calciato alle stelle il rigore decisivo nella finale contro il Brasile di cinque anni prima. E ci ricordiamo anche Brandi Chastain, la capitana americana che dopo aver messo a segno il rigore decisivo nella finale contro la Cina si tolse la maglietta rimanendo in reggiseno. Era un mondo ancora felicemente e politicamente scorretto, ancora facilmente eccitabile, ed era bello così, era bello vedere le donne U.S.A. sfatare così tanti luoghi comuni e prendere il volo.
Dopodiché, si doveva giocare di nuovo in Cina nel 2003, ma c’era l’epidemia di SARS e la FIFA spostò tutto ancora negli U.S.A. Meno forti di quattro anni prima, le campionesse in carica si arresero in semifinale alla Germania che poi vinse il titolo, finendo terze. Nel 2007 si giocava finalmente in Cina, gli Stati Uniti erano di nuovo favoriti, ma subirono dal Brasile la più secca sconfitta della loro storia, 4-0, e chiusero ancora terzi battendo la Norvegia, mentre in finale la Germania anticipava alle carioca il dispiacere di sette anni dopo vincendo il secondo titolo.
2011, si giocava in Germania, ma le padrone di casa rinunciarono presto a difendere il titolo. Gli U.S.A. però mancarono l’occasione di tornare in vantaggio nel conto dei titoli cedendo al Giappone ai calci di rigore. Il loro momento però venne quattro anni dopo in Canada. Tricampeones dopo aver restituito il favore alle giapponesi, battute per 5-2.
E si arriva ai giorni nostri, mondiale francese, americane favorite dopo anni di dominio della scena internazionale (ai quattro titoli mondiali vanno aggiunti i quattro ori olimpici di Atlanta 1996, Atene 2004, Pechino 2008 e Londra 2012, il dominio pressoché incontrastato nelle competizioni continentali della Federazione nordamericana, la CONCACAF, più una quantità di altri trofei).
L’unico dubbio era sulla qualità delle avversarie. Si riaffacciava l’Italia dopo tanto tempo (come sembra lontano quel match del 1985….), fermata nei quarti di finale da una Olanda che sembrava micidiale. Nel frattempo gli U.S.A. mettevano in fila le padrone di casa francesi (2-1) e le inglesi, sempre per 2-1 ma con qualche difficoltà in più. La goalkeeper Alyssa Michele Naeher aveva dovuto parare alla britannica Steph Houghton un rigore che avrebbe riaperto forse il discorso per la finale.
Alla quale finale invece sono approdate le ragazze di Jillian Ellis (gloria del calcio inglese non propheta in patria, visto che le sue medaglie d’oro mondiali se le è guadagnate Oltreoceano nel 2015 e in questo 2019), che hanno regolato con apparente facilità le olandesi, 2-0 con reti della capitana Megan Rapinoe su rigore e di Rose Lavelle con un gran tiro da fuori. E soprattutto con una giocata alla Cristiano Ronaldo che a questo punto fa sorgere seri dubbi sulla reale distanza tra un calcio maschile iperprofessionistico ed uno femminile che ormai gioca e lotta sotto un’unica bandiera, su cui campeggia a grandi lettere la scritta EQUALITY.
Quanta strada hanno fatto le donne americane e quel paese di cui sorridevamo carichi di malcelata ironia ancora al principio degli anni novanta. E’ stata una Route 66 per loro, ma li ha condotti, le ha condotte, sulla vetta al mondo.
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