Se n’é andò alla fine di una lunga lotta contro un male che difficilmente perdona. All’inizio di un periodo difficile – tanto per cambiare – per quella che era stata una delle due passioni della sua vita, oltre al giornalismo: la Fiorentina. Vinta ma non sconfitta, Manuela Righini ci lasciava il 21 giugno 2010 dopo sei anni di battaglia contro il cancro e dopo quasi quarant’anni di professione giornalistica esercitata in modo diventato leggendario.
Accostata spesso a Indro Montanelli, a cui oltre che lo stile lapidario e letterario insieme la accomunava l’origine fiorentina, il tifo per la Fiorentina appunto ed il carattere schietto e che non faceva sconti a nessuno, Manuela aveva scelto come ambito in cui lavorare un territorio che era stato considerato fino a prima di lei di esclusiva pertinenza maschile. Era stata infatti la prima donna giornalista sportiva nella storia d’Italia. La prima ad occuparsi – e con competenza e professionalità – di calcio. La prima ad entrare, a scopo esclusivamente professionale, negli spogliatoi dei calciatori per mettere loro davanti al viso il microfono con cui chiedere conto delle loro prestazioni in campo.
Dal Brivido Sportivo al mitico e mai abbastanza rimpianto Paese Sera, poi all’ANSA dove era diventata responsabile della Sezione Sportiva, poi a Kataweb e infine al Corriere della Sera, dove era arrivata fino al rango di Caporedattore centrale. Sempre al seguito della sua Fiorentina, di cui aveva commentato circa quarant’anni di vicende, da Antognoni ad Adrian Mutu. Da Ugolini a Della Valle. Parlando di lei, proprio Giancarlo Antognoni aveva saputo sintetizzarne con una frase la vita e la carriera: «con lei era facile andare d’accordo, se eri una persona corretta».
Aveva seguito, con preoccupazione, le vicissitudini viola fino ai suoi ultimi giorni, finché la malattia glielo aveva permesso. Aveva visto avvitarsi in una crisi pericolosissima la promettentissima presidenza Della Valle, e con la sua consueta schiettezza aveva commentato, lapidaria come può esserlo una sentenza, «la nostra unica garanzia si chiama Cesare Prandelli».
Quella della vittoria di Liverpool e del successivo furto di Ovrebo era stata l’ultima stagione sportiva della Fiorentina concessa alla sua vita, e lei non aveva fatto in tempo per pochissimi giorni a vedere quell’ultima garanzia andarsene, quando Cesare Prandelli decise alla fine di seguire il consiglio datogli da un esponente della società viola di «cercarsi un’altra squadra». E di raccogliere quindi l’invito della Figc a succedere a Marcello Lippi sulla panchina della Nazionale. Non aveva fatto in tempo a vederlo, ma a sentire che i giorni di Prandelli sulla panchina viola erano finiti, quello sì, purtroppo.
Le sarebbero stati risparmiati gli anni bui in cui tutto sembrava perduto, l’agonia sportiva di Mihajlovic, gli schiaffi di Delio Rossi a Llajic, una nuova retrocessione in B evitata per un soffio, la squadra da rifondare da zero, le nuove promesse anche stavolta non mantenute dai Della Valle, fino al disimpegno progressivo passando per le gestioni di Montella, Sousa e Pioli. Con le plusvalenze che sostituivano gli investimenti. I quarti posti, perfino loro, che diventavano un ricordo sempre più sbiadito.
Le sarebbe stato impedito di assistere ad un ennesimo cambio di proprietà della Fiorentina, lei che ne aveva visti tanti, se non quasi tutti. E chissà che avrebbe detto e scritto di queste ultime vicende, dall’annosa e ormai al limite del farsesco questione dello stadio nuovo al campionato falsato dalla pandemia del coronavirus (ma che come ogni spettacolo, che si rispetti o meno, deve andare avanti a tutti i costi), ai progetti per un futuro che ancora non è chiaro, o forse lo è soltanto nel cuore dei tifosi più accesi, che com’è noto non dubitano mai, perché non hanno altra scelta.
Chissà che avrebbe detto in questi giorni, insomma, della sua e nostra Fiorentina. Forse, memore delle tante scottature passate e ipotizzando quelle eventualmente a venire, avrebbe dato fondo al suo sano e fiorentinissimo scetticismo.
All’inizio di un decennio che di momenti difficili ne avrebbe riservati molti, é venuto a mancare a Firenze il suo insostituibile, professionalmente ineguagliabile, acume critico. Al giornalismo non solo locale e non solo sportivo é invece mancato un esempio che molti forse non hanno il temperamento, i numeri e la voglia di seguire più. Anche se adesso la Sala Stampa del Franchi è intitolata a lei. Ma chissà quanti se ne accorgono oggi, entrandovi.
Quanto ci manchi, Manuela. Proprio quando ne avevamo più bisogno….
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