Silvia Dionisio sulla copertina del 45 giri di Ennio Morricone, inno ufficiale del Mundial argentino
Proseguiamo questo excursus estivo tra le memorie sonore dei Mondiali di calcio andando un po’ indietro nel tempo, a quello in cui il rapporto tra sport e politica era più complicato di adesso. I giochi moderni devono guardarsi soltanto – si fa per dire – dal condizionamento degli interessi economici. Non molti anni fa, quando a fine gara davi la mano all’avversario, ti dovevi preoccupare anche da che parte stava, e quanto quella mano fosse pulita.
Da quando Mussolini aveva organizzato i Mondiali di calcio e Hitler le Olimpiadi, era chiaro a tutti che il valore propagandistico dei risultati e delle prestazioni sportive era enorme, e trascendeva abbondantemente i confini del villaggio olimpico. La tregua olimpica era già diventata, all’alba dello sport e della politica moderni, una pia illusione per idealisti nostalgici di un mondo classico, antichissimo, che non esisteva più da ben prima che De Coubertin riaccendesse il sacro fuoco di Olimpia.
Negli anni settanta, questa contraddizione tra ideale e realtà aveva raggiunto il parossismo. Non c’era più evento sportivo che non fosse preceduto da polemiche che con lo sport in senso stretto avevano poco o nulla a che fare. Nel 1972 le Olimpiadi di Monaco erano affogate nel sangue versato da Settembre Nero ai danni della squadra israeliana, insieme all’illusione della Repubblica Federale di Germania di presentare al mondo una faccia migliore di quella della Germania nazista nel 1936.
Nel 1974 la Coppa Davis era stata assegnata a tavolino. L’Unione Sovietica si era rifiutata di giocare la finale contro il Sudafrica, che di lì a poco sarebbe stato escluso da tutte le competizioni a causa della sua politica di apartheid ai danni della popolazione di colore.
Nel 1976 il problema si era ripresentato. In finale c’era, per la terza volta nella sua storia, l’Italia. Dall’altra parte della rete l’aspettava il Cile, che da tre anni era caduto sotto una delle dittature più sanguinarie e odiose della storia, quella di Augusto Pinochet, assassino e usurpatore del legittimo presidente Salvador Allende. Pietrangeli, Panatta & c. avevano sudato le sette camicie per convincere governo nazionale ed opinione pubblica dell’opportunità di volare a Santiago de Chile per prendersi la Coppa e non lasciarla nelle mani insanguinate del generale golpista. L’avevano spuntata dopo estenuanti e laceranti polemiche, e le meravigliose magliette rosse indossate da Panatta e Bertolucci nel vittorioso doppio decisivo avevano alla fine fatto dimenticare tutto.
Nel 1978, il problema italiano era diventato il problema di tutto il mondo. Le nazioni della terra erano convocate in Sudamerica per giocare il Mundial delle matite spezzate.
Quando aveva chiesto ed ottenuto l’organizzazione dei Mondiali di calcio del ’78 l’Argentina era ancora annoverata tra le nazioni governate da un regime democratico, anche se condizionato dal populismo spinto di Juan Peron, dei suoi descamisados, delle sue compagne Evita ed Isabelita che di politica ne capivano addirittura più di lui e di scrupoli ne avevano ancor meno..
L’Argentina attendeva con ansia sportiva quell’evento. Dopo aver disputato e perso la finale del 1930 in casa degli acerrimi rivali – qualcuno dice nemici – dell’Uruguay, era rimasta a guardare trionfare gli altri, soprattutto gli altrettanto acerrimi rivali – molti non esitano a dire nemici – brasiliani. I quali, forti della posizione di prestigio che le vittorie di Pelé e compagni avevano dato loro in seno alla FIFA, avevano fatto di tutto perché la richiesta argentina di un Mundial casalingo non fosse mai accolta.
Negli anni settanta finalmente il Brasile aveva dovuto venire a più miti consigli, e gli argentini avevano avuto ciò che volevano. Nel frattempo però avevano perso libertà e democrazia. Nel 1978 il regime di Jorge Rafael Videla aveva fatto abbondantemente impallidire per efferatezze commesse quello del dirimpettaio Pinochet. Nessuno alla fine avrebbe boicottato quell’edizione dei Mondiali, ma molti – a cominciare da quell’Italia che due anni prima si era spaccata sulla Davis giocata in casa dei fascisti – partirono sentendosi la coscienza sporca.
A Buenos Aires si presentò, come già era successo a Santiago, una delle migliori Nazionali italiane di tutti i tempi. Bernardini e Bearzot avevano allestito una formazione di campioni che nulla aveva da invidiare alla generazione precedente, quella che aveva fatto sognare all’Azteca messicano e poi aveva clamorosamente deluso al Neckarstadion di Stoccarda.
A differenza di due anni prima, l’Italia del calcio non avrebbe alzato la Coppa come quella del tennis, ma avrebbe messo d’accordo tutti sul fatto che avrebbe dovuto farlo, essendo la squadra migliore. E’ opinione comune che fosse ancora più forte di quella che avrebbe trionfato quattro anni dopo in Spagna. Le costò caro un calo fisico nella ripresa contro un’Olanda che era appena un po’ meno forte di quella che quattro anni prima aveva inventato il calcio totale.
Alla fine, a prendere la Coppa dalle mani sporche di Videla ci andò il capitano della seleccion albiceleste Daniel Alberto Passarella, che si trovò probabilmente di fronte allo stesso dilemma che si era parato davanti a Giuseppe Meazza nel 1934. E che lo risolse altrettanto brillantemente prendendo senza esitazione la coppa da quelle mani indegne e offrendola al cielo ed alla gioia del suo popolo.
A noi italiani rimase la consolazione che era mancata solo la fortuna, non il valore. E la consapevolezza che quella squadra azzurra che con Bettega aveva addirittura inflitto l’unica sconfitta all’Argentina campione sarebbe andata molto lontano.
Ci rimase poi il prestigio di aver contribuito all’organizzazione di quel tormentato mondiale con l’inno commissionato al maestro Ennio Morricone, la Marcha del Mundial de Argentina. Che il maestro probabilmente non avrà ricordato per ovvi motivi con meno piacere rispetto a tanti altri suoi capolavori, ma che quell’estate fischiettavamo tutti, orgogliosi della nostra maglia azzurra quanto e più degli argentini della loro biancoceleste. Ai quali argentini, tuttavia, la vittoria aveva offerto uno spiraglio di luce in una notte che sarebbe rimasta terribilmente buia ancora per qualche anno.
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