San Valentino è in tutto il mondo il giorno in cui gli innamorati festeggiano se stessi. Meno che a Cesenatico. Per gli abitanti della cittadina romagnola, da un po’ di anni a questa parte è la ricorrenza del giorno in cui se ne andò il loro compaesano più illustre. Marco Pantani detto il Pirata, l’uomo che aveva rinnovato (per l’ultima volta) la leggenda di un ciclismo epico di cui solo i più vecchi avevano ormai memoria.
Lo sport delle due ruote era stato soprattutto Fausto Coppi e Gino Bartali, due campionissimi italiani, due mostri sacri che avevano fatto del ciclismo del dopoguerra un derby tutto tricolore. Dopo di loro, tanti campioni, a cominciare da Felice Gimondi fino a Francesco Moser e Giuseppe Saronni e Mario Cipollini. Ma nessuno capace di rinverdire veramente quei fasti dei nostri due italiani uomini soli al comando. Nessuno, a parte lui.
Era un ragazzo di Romagna come tanti, Marco Pantani. Tutti innamorati delle due e delle quattro ruote, in genere. Tutti a sognare una Ferrari o una Ducati, tutti con il mito della velocità nel sangue. Nel DNA. Il successo d’esordio del fuoriclasse della canzone Gianni Morandi, nato nella vicina Emilia, era stato Andavo a 100 all’ora, guarda caso. Anche Marco sognava la libertà e inseguiva le leggende che attraversavano in lungo e in largo la sua terra su una due ruote. Ma di quelle spinte dalle gambe di un uomo sui pedali, non da un motore.
Era nato nel 1970, vent’anni dopo esatti era già sul podio del Giro d’Italia dilettanti, che vinse altri due anni dopo nel 1992. Sembrava l’inizio di una grande carriera. Marco era uno scalatore impressionante, di quelli che arrivano in fondo alle corse a tappe, e si lasciano dietro gli altri a distacchi abissali. Questo fu subito chiaro fin dall’esordio, come fu chiaro anche che però la fortuna era l’unica a correre più veloce di lui.
Nel 1994 esplose, classificandosi secondo al Giro e terzo al Tour de France. Il mondo si accorse di questo ragazzo dall’aspetto antico, dal volto già segnato da una fatica immensa che lui sfidava e batteva tutti i giorni, dalla testa glabra che proteggeva dai raggi del sole con quella che sarebbe diventata la sua fedele compagna di tante fughe in salita: la bandana che gli avrebbe valso il suo Marco Pantani (in maglia rosa) soprannome più bello. Il Pirata.
Il 1995 doveva essere il suo anno, ma un’auto si mise di traverso ai suoi sogni e gli ridusse un ginocchio così male da costringerlo a saltare il Giro e ad accontentarsi di un 13° posto al Tour, impreziosito comunque da una clamorosa vittoria sulla mitica Alpe d’Huez. Erano gli anni di Miguel Indurain, il fuoriclasse spagnolo che cannibalizzava le corse a tappe. Ma sulle salite che contavano, a Marco non gli stava dietro e doveva accontentarsi di limitare i danni. Nel campionato del mondo di quell’anno, in Colombia, riuscì a stargli davanti di poco, lui argento e Marco bronzo (vittoria all’altro spagnolo Olano).
Era il momento di pensare al 1996 e alla riscossa, ma le macchine sembravano avercela con Pantani. Un fuoristrada che viaggiava in senso contrario durante la Milano-Torino (in Italia succedevano e succedono anche queste cose) gli procurò una frattura a tibia e perone talmente gravi da mettere a rischio la sua carriera agonistica. Salvò gamba e carriera, dedicando il resto del ’96 a riprendersi dall’infortunio e a ritrovare la condizione.
Nel 1997 al Giro fu fermato non da un mezzo meccanico, ma da un animale, un gatto che gli attraversò la strada durante una tappa di trasferimento. Nella caduta si lacerò le fibre muscolari della coscia sinistra. Nuovo stop, nuovo sconforto («avrei voluto essere battuto dagli avversari, invece ancora una volta mi ha sconfitto la sfortuna») e nuova reazione. Al Tour di quell’anno era di nuovo in sella, Indurain non c’era più, c’erano Ulrich e Virenque che per stargli davanti dovettero sputare sangue e ringraziare l’ultima tappa a cronometro. Sull’Alpe d’Huez e a Morzine, Marco aveva attaccato e fatto loro molto male. Poi a cronometro non ce l’aveva fatta.
Era mancata una volta di più la fortuna, non il valore. Ma la gente sa riconoscere gli eroi, che vincano o no. Marco era diventato il beniamino di quanti, appassionati di ciclismo o meno, erano in cerca di un campione vero, di un personaggio vero, di uno capace di rinverdire la leggenda in bianco e nero di Coppi e Bartali, questa volta a colori, con risalto particolare per il rosa e il giallo. Come già il Moro di Venezia aveva attirato alla Vela anche spettatori che non avevano mai visto una barca, o la generazione di fenomeni di Julio Velasco aveva riconquistato al Volley milioni di italiani che se ne erano distaccati dai tempi della scuola, così Marco Pantani il Pirata, il Pantadattilo, come anche veniva chiamato per sottolineare quel suo aspetto antico, riconquistò al ciclismo una generazione che non lo annoverava più tra gli sport di massa, commosse i più vecchi che dopo Fausto e Gino non speravano più di riprovare certi brividi. E dette materia a quei giornalisti che avevano ancora voglia di scrivere poemi epici intitolati allo sport, come Gianni Mura e Candido Cannavò.
A quel tempo, Cesenatico era una delle capitali dell’Italia sportiva. Il Chiosco di Mamma Tonina, con le sue piadine entrate nella leggenda, era metà di pellegrinaggio come la Mecca per i musulmani. Era lì che si concentrava la movida romagnola, era lì che si respirava l’atmosfera dei grandi eventi sportivi. Che si faceva la storia. Quando l’anno dopo il Pirata ci entrò finalmente dentro a quella benedetta storia, vincendo consecutivamente Giro e Tour ed andando a raggiungere i suoi illustri predecessori Fausto e Gino e gli altri pochi capaci di una simile impresa nella stessa stagione, sotto casa sua si radunò talmente tanta gente che lui si impaurì, temperamento sensibile com’era, e scappò saltando sulla sua Harley Davidson, il casco sopra la bandana nera e via dalla pazza folla.
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