La Via della Seta. Una leggenda che non cessa di esercitare la sua suggestione collegando idealmente e materialmente Oriente e Occidente dall’alba della civiltà umana fino ai giorni nostri.
Dice il saggio, così cominciano le storie del Celeste Impero. E’ il caso di dirlo più che mai, perché il saggio in questione è nientemeno che Confucio, che in uno dei suoi libri narra di come, in un tempo che può farsi risalire a circa 2.600 anni prima di Cristo, l’imperatrice cinese Si Ling Chi avesse scoperto come allevare il baco da seta, a tesserne la bava e a ricavarne quel soffice e prezioso tessuto che non avrebbe avuto uguali nel resto del mondo.
Molto tempo più tardi, un altro grande impero sorto ad occidente di quella sterminata pianura eurasiatica di cui quello cinese dominava l’estremità orientale, l’Impero Romano, sarebbe in qualche modo venuto a conoscenza di quel prezioso segreto e della via lunghissima, pericolosissima e tuttavia importantissima attraverso la quale era possibile raggiungere la terra lontana dove si coltivava il bombix mori, il baco da seta così chiamato nella lingua latina. La più preziosa di tutte le merci, più del sale, del ferro e dell’ambra.
Giulio Cesare, di ritorno da una delle sue campagne in Asia Minore, portò con sé a Roma ed esibì nel suo trionfo gli stendardi conquistati ai nemici, intessuti di una preziosa stoffa che veniva da lontano, da terre sconosciute abitate da gente dalle sembianze strane, con gli occhi a mandorla. Da quel momento Roma commerciò la seta per il tramite dei carovanieri che percorrevano le rotte asiatiche. Quella che passava a nord del Mar Caspio, quella che passava a sud per Samarcanda e quella che costeggiava il Mar Rosso, il Golfo Persico e la vecchia rotta di Alessandro Magno attraverso l’India.
Le antiche leggende che confinano e si intersecano con la Storia parlano di legioni romane perdute o catturate, finite nelle terre del popolo dalla pelle gialla e dagli occhi strani. Vere o no che siano, Roma e la Cina furono consapevoli l’una dell’esistenza dell’altra, fintanto che una nuova era giunse a ridisegnare la geografia ed a riscrivere la storia dell’immenso continente di cui avevano dominato le estremità.
Più o meno all’epoca in cui a est si cominciava a costruire la Grande Muraglia che avrebbe dovuto tenere gli Jung Nu, gli Unni, fuori dal Celeste Impero, essi si riversarono a occidente sospingendo le popolazioni barbare della Germania verso l’altro Impero che non si era altrettanto fortificato: quello di Roma, la cui filosofia ai tempi d’oro era stata quella secondo cui il modo migliore di fortificare un territorio consiste nel conquistare quello successivo.
La Roma della decadenza fu travolta da Unni e Germani. Sopravvisse solo il suo Impero d’Oriente, che sotto Giustiniano conobbe un nuovo e tuttavia effimero splendore. Fu proprio al tempo dell’Imperatore che avrebbe dato una legge a tutto il mondo che i Romani – ormai diventati Greco-Romani – coronarono il loro vecchio sogno: possedere il segreto dell’animaletto che produceva la stoffa più raffinata e preziosa che ci fosse. La stoffa che Cleopatra aveva indossato per sedurre Giulio Cesare, e che Cesare stesso aveva voluto che fosse dispiegata sul Circo per riparare dal sole gli spettatori senza imbruttire il colpo d’occhio dell’edificio.
Due monaci spediti a predicare il Vangelo di Cristo nelle terre dei Seri (così venivano chiamati i Cinesi, dal greco seres = seta, appunto) riuscirono a nascondere dei bozzoli nei loro bastoni da viaggio ed a riportarli a Costantinopoli. Da quel momento Greci e Arabi poterono iniziare la loro coltivazione autoctona, e la seta si diffuse in tutta Europa, fino alle terre del nord.
La Cina tuttavia era rimasta la principale produttrice di seta, ed i mercanti europei e quelli del Medio Oriente non avevano potuto esimersi dall’intraprendere, generazione dopo generazione, la via che conduceva al lontano e favoloso est.
Nel 1200, quell’est si chiamava Katai, dopo che il leggendario capo mongolo Temujin aveva avuto successo nell’impresa che era mancata ad Attila ed agli Unni. I Mongoli erano una delle tribù altaiche guerriere degli altopiani dell’Asia Centrale, come i Turchi che avevano preso verso sud e le terre dell’Islam. Temujin invece diresse le sue armate ad est e ad ovest. Il suo impero all’apogeo era immenso, avendo inglobato tutta la Cina e buona parte della odierna Russia, ed il suo popolo lo aveva incoronato Gran Khan, grande Re, con il nome di Gengis Khan.
Alla metà del secolo XIII° il titolo era stato ereditato dal nipote Kublai. Il Katai, la Cina sotto la dinastia mongola, era conosciuta in Europa come meta pericolosa da raggiungere ma anche come luogo di favolose ricchezze. La Via della Seta a quel punto si era fatta più problematica da percorrere, chiusa com’era a nord dai Mongoli, al centro dai Bizantini (che erano diventati ostili agli occidentali ed in particolar modo ai Veneziani della Repubblica Marinara), al sud dai Turchi Ottomani contro cui si stava consumando vanamente l’ardore guerriero dell’Europa Cristiana nel tentativo di liberare il Santo Sepolcro.
Ci consideriamo un popolo di poeti, navigatori e santi. Sulla santità non ci pronunciamo, è materia di fede e non di ragione. Sulla poesia, è indubbio che il nostro paese sia una delle culle della nostra civiltà. Sul navigare, è singolare il destino degli italiani, spesso apripista nelle scoperte, nelle conquiste e nelle invenzioni e mai o quasi destinati a possederne i brevetti o a sfruttarne i benefici.
La strada che portava al mitico Estremo Oriente era stata percorsa per millenni da generazioni e generazioni di carovanieri ed avventurieri. Ma il nome a cui è legata principalmente resta quello di un italiano, appartenente ad una delle famiglie nobili della più nobile delle Repubbliche Marinare, Venezia.
I Polo erano patrizi mercanti. Venezia era nata in condizioni precarie ed in condizioni precarie avrebbe vissuto tutta la sua storia millenaria fatta di indipendenza e di gloria. I nobili come i popolani non potevano permettersi di vivere di rendita o di ozio. Dovevano andare a cercarsi fortuna in capo al mondo, se necessario. A maggior gloria propria e della Serenissima.
I Polo, Niccolò e Matteo, la loro fortuna l’avevano accumulata a Costantinopoli, nel periodo in cui la vecchia capitale imperiale era in pratica un possedimento veneziano, dopo la Quarta Crociata. Con il sesto senso che ha soltanto chi vive di affari, capirono che quella fortuna volgeva al termine nel momento in cui gli imperatori bizantini lanciarono la riconquista dell’Impero Romano d’Oriente. Convertiti i loro averi in pietre preziose, erano partiti alla volta della Cina dove erano riusciti a stabilire buoni rapporti con il neo eletto Khan Kublai. Il quale aveva affidato loro una missione diplomatica presso il Papato. La Via della Seta, tremila anni circa dopo essere stata aperta, diventava ufficiale, una strada di grande comunicazione, si direbbe oggi. I Polo tornarono a Venezia dieci anni dopo la loro partenza, carichi di ricchezze, di prestigio e di responsabilità.
Il Papa li rispedì in Oriente per stabilire relazioni diplomatiche con il Khan. Nel 1271 i fratelli Polo ripartirono, portandosi dietro stavolta il giovane Marco, figlio di Niccolò, che non aveva ancora neanche 18 anni.
Il Milione è il primo esempio di un genere letterario destinato ad avere grande fortuna nella storia moderna: il resoconto (romanzato) di viaggio. Il giovane Marco Polo l’avrebbe memorizzato durante il suo viaggio e la sua permanenza alla corte di Kublai Khan durati complessivamente 24 anni, e lo avrebbe scritto da vecchio, nel carcere genovese dove era rinchiuso dopo la sconfitta nella battaglia navale all’isola dalmata di Curzola, dettandolo al compagno di cella Rustichello da Pisa, catturato a sua volta allo scoglio della Meloria.
Nessuno sapeva esattamente cos’era la Cina, prima di Marco Polo. Nessuno conosceva esattamente le sue potenzialità e le sue ricchezze, prima di leggere il racconto di Polo denominato Il Milione. Si credeva che il titolo facesse riferimento a quelle ricchezze favolose, che Marco Polo avesse inteso darne un ordine di grandezza. In realtà, pare che Milione fosse il suo stesso soprannome, lui che era solito parlando descrivere le cose in quantità, «milioni di…..»
Non ci sarebbe stato umanesimo né rinascimento se italiani d’ingegno non avessero riportato alla luce l’ingegno degli antichi. Ma nemmeno se Marco Polo non avesse intrapreso quel viaggio, che ne fa uno degli uomini che da soli hanno cambiato la storia della nostra civiltà, a onore e gloria del nostro paese che gli ha dato i natali. Ulisse, Alessandro Magno, Giulio Cesare, Carlo Magno. E poi appunto il veneziano Marco Polo, nato figlio di mercanti e morto letterato oggetto di ammirazione, venerazione ed anche critiche e scetticismo.
«Dopo di aver chiarito le ragioni dell’incredulità di cui i contemporanei circondavano i suoi racconti, il Polo prima di morire assicurò di non aver detto che metà delle cose che aveva visto», raccontava Frate Jacopo d’Acqui, uno dei suoi commentatori e biografi.
Marco Polo aprì la Cina al mondo, ed il mondo alla Cina. Dopo di lui la Storia sarebbe cambiata così radicalmente soltanto un’altra volta. Sempre per mano di un italiano, un giovane marinaio genovese che del Milione era stato appassionato lettore, al punto da dannarsi l’anima finché non avesse trovato una via alternativa a quella che Polo aveva aperto e che la Mezzaluna turca sembrava ormai aver chiuso definitivamente.
Il suo nome era Cristoforo Colombo.
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