Alle prime luci dell’alba del 18 maggio 1944 una avanguardia del 12° Reggimento Lancieri del 2° Corpo d’Armata polacco aggregato all’8^ Armata britannica riuscì finalmente a raggiungere – dopo quattro mesi di tentativi sanguinosi e infruttuosi – la sommità della montagna che sovrasta l’abitato di Cassino e ad issare la propria bandiera sulle macerie di quella che fino a pochi giorni prima era stata la più antica e la più importante Abbazia del mondo.
Montecassino era stata fondata subito dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente da Benedetto da Norcia, poi canonizzato come uno dei primi e più importanti santi della Chiesa Cattolica, quello che l’aveva dotata dello strumento organizzativo che avrebbe determinato probabilmente la sua fortuna nei secoli bui del Medioevo: la regola monastica.
Era il 480 dopo Cristo, le sue due semplici parole ora et labora, prega e lavora, avevano acceso una luce di speranza nel buio delle invasioni barbariche e ipotecato il futuro a lunghissima scadenza, anche se San Benedetto mai avrebbe immaginato il destino e la fama a cui la sua Abbazia sarebbe andata incontro nei millecinquecento anni successivi, fino al tragico epilogo in quell’anno 1944 dopo Cristo in cui il nome Montecassino avrebbe acquisito nuova fama (stavolta indesiderata) per identificare l’operazione più controversa della seconda guerra mondiale assieme al bombardamento di Dresda.
Se la distruzione della città tedesca era stata decisa forse dall’Alto Comando della Royal Air Force britannica più come ritorsione per i lunghi anni di sofferenza imposti a Londra dai blitz della Luftwaffe che per reale utilità tattico- strategica quando ormai la Germania era ridotta sulla difensiva (gli Alleati sfondarono le linee tedesche a Remagen attraversando il fiume Reno il 7 marzo 1945, venti giorni dopo circa il bombardamento di Dresda), la distruzione dell’Abbazia di Montecassino fu più che altro un errore di valutazione.
Gli Alleati erano convinti che la Wehrmacht tedesca si fosse arroccata nell’Abbazia, controllando così l’accesso alla valle del Liri che costituiva la principale via d’accesso a Roma. Dopo lo sbarco di Anzio nel gennaio del ‘44, il fronte italiano si era fermato. I Tedeschi si erano attestati sulla Linea Gustav, che dal litorale laziale sotto Anzio raggiungeva quello abruzzese sotto Ortona attraversando l’Appennino all’altezza appunto di Cassino, e lì avevano opposto una resistenza ferrea.
Il comando Alleato si era diviso, con gli Americani favorevoli a concentrare le proprie risorse su Overlord, lo sbarco in Normandia deciso fin dalla conferenza di Teheran nell’autunno precedente, e gli Inglesi che invece ritenevano importante proseguire con pari energia nella Campagna d’Italia per la penetrazione e la conquista di quello che Winston Churchill aveva definito il ventre molle dell’Asse, l’Italia appunto.
Il generale britannico Harold Alexander condivideva con il suo comandante in capo Bernard Montgomery la filosofia della preparazione minuziosa e senza fretta di ogni attacco, e non aveva intenzione di accelerare i tempi, anche se Londra voleva la conquista di Roma completata per quando Overlord fosse scattata.
Anche i Tedeschi si erano divisi, Rommel sarebbe stato per il ritiro del fronte sulla Linea Gotica (Appennino tosco-emiliano), mentre Kesselring (il comandante in capo del teatro di guerra italiano, con il quale Hitler era tra l’altro in sintonia di vedute) era per la resistenza ad oltranza centimetro dopo centimetro.
Risultato, gli Angloamericani restarono bloccati per tutto l’inverno e la primavera del 1944 tra la testa di sbarco attestata ad Anzio ma ferma praticamente sulla sua spiaggia e il fronte di Cassino, contro il quale furono lanciate ben tre offensive tra il febbraio ed il maggio. Tutte inutili, ma in compenso tutte causa di enorme spargimento di sangue. I Tedeschi, in base ad un accordo con i monaci dell’Abbazia, non erano entrati in essa ma si erano fortificati all’esterno e da lì in effetti controllavano la valle del Liri.
L’intelligence anglo-americana riteneva che fossero al suo interno, da qui l’ordine di bombardare gli edifici dell’Abbazia e con essi millecinquecento anni di storia, non ottenendo altro risultato che ridurli ad un cumulo di macerie (a quel punto utili veramente alla difesa tedesca senza più remore artistiche o spirituali) ed attirarsi l’esecrazione dell’opinione pubblica (almeno di quella che aveva ancora tempo e modo di dedicarsi ad altro che non fosse la tragedia di quella immane guerra).
Montecassino insomma non fu fortunata come lo sarebbero state in seguito la città di Roma e buona parte di quella di Firenze, con il Ponte Vecchio e gli altri monumenti circostanti. Tra le sue macerie i Tedeschi resistettero ad altre due offensive finché la quarta, lanciata il 17 maggio, portò nel giro di ventiquattrore i Polacchi – avanguardia dell’armata britannica così come i Gurkha indiani ed i Neozelandesi (i Francesi del resto facevano altrettanto mandando avanti i temibili Goumier marocchini) – ad issare la loro bandiera su un cumulo di macerie ormai irriconoscibili e lorde di sangue.
Lo sfondamento di Cassino e lo sblocco della testa di sbarco di Anzio il 18 maggio consentirono alla 5^ Armata del generale americano Mark Clark la presa di Roma il 4 giugno, appena in tempo per soddisfare il desiderio di Churchill che essa avvenisse prima dello sbarco in Normandia, lanciato la notte successiva tra il 5 ed il 6.
La presa dell’Abbazia e dell’abitato sottostante è rimasta tristemente famosa anche per l’inaugurazione ufficiale sul fronte italiano delle cosiddette marocchinate. Il generale francese Alphonse Juin non nutriva evidentemente alcuna simpatia per la popolazione del paese che nel giugno del 1940 aveva pugnalato alle spalle il suo, se è vero che autorizzò come premio per la vittoria concesso ai suoi Goumier marocchini di potersi lasciare andare per le 48 ore successive alla vittoria.
Tempo che fu impiegato dai nordafricani a dare sfogo alla propria indole, compiendo furti, assassinii e violenze d’ogni genere. Ma soprattutto stupri, anche di gruppo, dai quali pare che fossero veramente poche le donne (comprese le ragazzine, addirittura le bambine, e se non erano sufficienti al fabbisogno, perfino ragazzi e bambini) del basso Lazio che riuscirono a salvarsi.
La ricostruzione dell’Abbazia, com’era e dov’era, avviata subito dopo la fine della guerra poté dirsi conclusa il 1° dicembre 1955 con la ricollocazione delle reliquie mortali di San Benedetto sotto l’altare maggiore.
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