Il 17 maggio 1972 alle ore 9:15 di mattina il Commissario di Polizia Luigi Calabresi lasciava la sua abitazione in Via Francesco Cherubini a Milano dirigendosi come ogni giorno verso la sua auto, con la quale avrebbe raggiunto la Questura del capoluogo lombardo, dove prestava servizio da oltre cinque anni, nell’Ufficio cosiddetto politico.
Non ci sarebbe mai arrivato. Fu avvicinato da un commando, o come si diceva allora gruppo di fuoco, che lo prese alle spalle mitragliandolo e uccidendolo sul colpo. A 35 anni, Calabresi lasciava la moglie Gemma, i figli Mario (giornalista e scrittore, ex direttore del quotidiano La Repubblica, e che ha raccontato la storia della sua famiglia nel libro Spingendo la notte più in là) e Paolo ed un terzo in arrivo, che avrebbe preso fatalmente il suo nome di battesimo.
Luigi Calabresi era uno dei servitori di uno Stato a cui in quel periodo si opponevano nemici letali, dalla criminalità organizzata al terrorismo. Il suo nome, scritto quotidianamente accanto a pesantissime minacce sui muri delle strade di moltissime città d’Italia, era diventato famoso per l’opinione pubblica e per i suoi nemici mortali in occasione delle indagini sulla strage di Piazza Fontana.
Tra i fermati successivamente alla strage, c’era stato quel Giuseppe Pinelli anarchico che Calabresi aveva conosciuto da tempo durante le infiltrazioni di gruppi eversivi sospettati di preparare attentati o di fornir loro comunque supporto logistico. Pinelli, trattenuto peraltro oltre le 48 ore che la legge destinava agli accertamenti e quindi illegalmente, era volato giù da una finestra del quarto piano della Questura, corrispondente all’ufficio del Commissario.
La versione che le autorità dettero della disgrazia fu quanto mai equivoca e lacunosa, come spesso succedeva all’epoca. Nessuno, da qualunque parte fosse schierato, credette alla versione del suicidio del colpevole messo alle strette. Per chi stava dalla parte avversa alle forze dell’ordine, Calabresi – sul quale per forza di cose finirono per appuntarsi le responsabilità oggettive che i suoi superiori della Questura non avevano voluto fare proprie o comunque chiarire – divenne l’assassino. Il bersaglio della vendetta proletaria che le scritte sui muri e gli slogan dei cortei invocavano. E che numerosi intellettuali della sinistra di allora (a cominciare da Dario Fo, autore del celebre Morte accidentale di un anarchico) alimentavano in maniera altrettanto letale.
Cosa successe quella mattina di maggio del 1972 in Via Cherubini fu raccontato 16 anni dopo, nel 1988, da un pentito della sinistra extraparlamentare. Quel Leonardo Marino ex militante di Lotta Continua che aveva battezzato i propri figli con i nomi dei fondatori del movimento, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. E che confessò ai Carabinieri di essere stato l’autista del gruppo di fuoco di Via Cherubini. Indicò come esecutore materiale dell’omicidio del commissario il compagno Ovidio Bompressi, ed in Sofri e Pietrostefani i mandanti.
Di tutti i misteri della repubblica di quegli anni, l’omicidio del Commissario Calabresi è uno dei più misteriosi a tutt’oggi. A parte Marino, gli altri tre implicati – e poi condannati – di Lotta Continua hanno sempre professato la propria innocenza, al pari di quel Pinelli che con la propria morte aveva avviato inconsapevolmente la tragica catena di eventi che aveva condotto a Via Cherubini, e molto tempo dopo alla controversa confessione di Marino.
Il Commissario, che aveva raccontato ad Enzo Tortora di aver sopportato il proprio calvario personale in quegli anni di piombo soltanto in virtù della propria fede cristiana, dopo Piazza Fontana aveva indagato sul traffico internazionale di armi ed esplosivi attraverso il confine giuliano-jugoslavo e quello lombardo-svizzero. Indagine avviata a seguito di un altro fatto dell’Italia dei misteri, la morte di Giangiacomo Feltrinelli sul traliccio di Segrate. Alla luce di ciò che sappiamo adesso di quegli anni, è lecito dubitare dove stia la verità circa la fine di un servitore dello stato che probabilmente era diventato troppo scomodo, con o senza Pinelli.
Nel 1975 il Commissario, che riposa al cimitero maggiore di Milano, fu dichiarato ufficialmente estraneo alla fine tragica di Pinelli a seguito dell’inchiesta condotta da un giovane sostituto procuratore, Gerardo D’Ambrosio, il quale accertò che la morte dell’anarchico era stata effettivamente accidentale – né suicidio, né omicidio – e che peraltro il Commissario Calabresi non si trovava neppure nella stanza al momento del fatto.
Il 14 maggio del 2004 lo Stato italiano si ricordò finalmente del suo servitore e della sua famiglia consegnando alla vedova Gemma Capra la medaglia d’oro al valor civile alla memoria, conferita al Commissario caduto dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Nella motivazione si legge, tra l’altro: «Fatto oggetto di ignobile campagna denigratoria, mentre si recava sul posto di lavoro, veniva barbaramente trucidato con colpi d’arma da fuoco esplosigli contro in un vile e proditorio attentato. Mirabile esempio di elette virtù civiche ed alto senso del dovere »
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