1974. Da vent’anni la RAI svolgeva egregiamente il suo ruolo di servizio pubblico producendo spettacoli di intrattenimento e/o culturali di altissimo livello. Il sabato sera in particolare era diventato un appuntamento fisso per le famiglie italiane, alternando le Canzonissime ai Varietà che allora vedevano in scena grandissimi attori ed attrici, capaci di stare da mattatori sul palco dell’Ariston così come su quello dei maggiori teatri del paese. Da Garinei e Giovannini a Pirandello e Shakespeare, per intendersi.
La domenica anche. Era la volta delle grandi riduzioni televisive di opere letterarie che avevano fatto grande la nostra cultura, una cultura tra l’altro finalmente diffusa tra tutti, ricchi e poveri, signori e popolani, grazie all’opera di personaggi come l’indimenticabile maestro Alberto Manzi.
Nei salotti degli italiani alla luce azzurrina della scatola magica era stato rievocato un po’ tutto l’armamentario fantastico della nostra e dell’altrui letteratura, dall’Isola del Tesoro al Conte di Montecristo, dai Promessi Sposi ai Fratelli Karamazov, dalle Stelle che stanno a guardare alle Avventure di Pinocchio. Fino ai testi sacri. In mano a registi ed attori di grande calibro e fama internazionale, perfino la nostra religione era andata in scena nei suoi aspetti fondamentali, pur in un’epoca in cui il sacro era tenuto ben distinto dal profano da una censura televisiva abbastanza stretta.
Nel 1974, mentre Franco Zeffirelli ultimava le riprese di Gesù di Nazareth – la vita e la passione di Cristo, un tema che nessuno, a parte Pier paolo Pasolini al cinema, aveva osato sfiorare fino a quel momento – un altro regista italiano di gran nome portava sulla scena un’altra storia fondante la nostra religione e la nostra cultura ancestrale. Gianfranco De Bosio, ex partigiano diventato regista ed impresario teatrale, si era cimentato per il piccolo schermo nella narrazione nientemeno che della vita di Mosé e della fuga del popolo ebraico dall’Egitto verso la Terra Promessa.
Tema quanto mai scottante, nell’anno in cui si contavano ancora i morti di una lunga stagione di sangue che aveva coinvolto il Medio Oriente e l’Europa, durante lo scontro senza esclusione di colpi tra Israele e le organizzazioni arabe per la liberazione della Palestina. Che rivendicavano tre o quattromila anni dopo la stessa terra che era stata promessa a Mosé.
La questione ebraica era scottante da sempre. Gli Ebrei avevano pochi amici e nessun alleato già al tempo di Mosé. Sotto i Romani, in quanto rivoltosi cronici divennero dapprima il popolo da schiacciare per antonomasia, al tempo degli imperatori pagani; e poi il popolo maledetto, al tempo della conversione cristiana dell’Impero e della nascita della Chiesa Cattolica. Per duemila anni gli assassini di Dio erano stati emarginati, ghettizzati e perseguitati. Loro avevano risposto stringendosi e chiudendosi in se stessi ed attorno a quel Vecchio Testamento che per loro negava il Nuovo, e l’avvento di quel Gesu figlio di Dio che i loro sacerdoti avevano consegnato alla giustizia romana.
Nell’Anno del Signore 1974, la questione era tutt’altro che risolta e superata. L’Olocausto aveva lasciato in eredità un debito morale della comunità internazionale nei confronti degli Ebrei. Un debito non riconosciuto da chi aveva ereditato le tossine ideologiche del fascismo e del comunismo. Gli Ebrei non erano più infedeli da perseguitare, ma restavano nemici politici da temere e continuare ad odiare.
In un momento in cui – dopo la strage di Monaco e la guerra del Kippur – l’opinione pubblica italiana come quella europea pendeva dalla parte dei Palestinesi, affrontare il mito ebraico per eccellenza, quello della Pasqua di Mosé, significava esporsi a grosse difficoltà e scarse simpatie.
Ma De Bosio aveva paura delle polemiche così come aveva avuto paura dei Tedeschi: per niente. Il cinema italiano, tra l’altro, era all’epoca considerato d’eccellenza. A disposizione di De Bosio si misero star internazionali come Burt Lancaster (che dopo Luchino Visconti ed il Gattopardo tornava a lavorare in Italia ogni volta che poteva ,l’anno seguente sarebbe stata la volta di Bernardo Bertolucci e di Novecento) a cui fu affidato il ruolo dell’uomo che aveva ricevuto le tavole delle leggi da Dio sul monte Sinai. Per tutti, fino a quel momento il legislatore aveva avuto il volto hollywoodiano di Charlton Heston, protagonista dei Dieci Comandamenti di Cecil B. DeMille. Burt Lancaster sostituì alla mascella squadrata e volitiva del collega Heston il suo sguardo pensoso e tormentato dai dubbi. Quei dubbi che gli avrebbero valso il rifiuto del suo Dio di premiarlo con l’arrivo in Terra Promessa alla guida del suo popolo.
Completavano il cast Anthony Quayle (il fratello Aronne), Ingrid Thulin (Miriam la sorella di Mosé), Irene Papas (la moglie Sephora), Mariangela Melato (Bithia, la principessa egizia che lo salvò dalle acque) e Laurent Terzieff, attore francese di lunga frequentazione con il grande cinema italiano, a cui fu affidato il ruolo del faraone Merneftah, il figlio di Ramses II a cui le piaghe divine strapparono il consenso alla partenza degli Ebrei. Salvo poi rimangiarselo e pagarne il conto tra le acque del Mar Rosso che si richiudevano su di lui e sugli inseguitori egiziani.
Fu uno sceneggiato all’altezza con la grande tradizione della RAI, per l’occasione in coproduzione con un’altra factory di gran pregio, la BBC. Impreziosiva la narrazione la colonna sonora scritta da colui che era già acclamato all’epoca come un altro maestro italiano nel suo campo: Ennio Morricone.
Il brano di oggi è suo, ed è il canto maestoso di gioia e di speranza con cui Israel si mette in marcia, nella domenica di Pasqua di alcuni millenni fa. Verso la Terra Promessa.
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