Chissà cosa pensava di se stesso e della propria vita che ebbe modo di ripercorrere interamente, nelle lunghe ore insonni trascorse prima dell’alba accanto alla donna che il mondo ormai conosceva come la sua amante ufficiale, l’ultimo suo grande amore (la moglie legale, donna Rachele Guidi, era a quel punto chissà dove, prigioniera insieme ai figli degli Alleati che due giorni prima avevano vinto la Seconda Guerra Mondiale, ricevendo la resa della Wehrmacht tedesca).
Chissà che cosa vide, proiettato nel buio della stanza dove alloggiava come un film d’epoca in bianco e nero. Cosa rimpianse. Di cosa si rammaricò. Era un uomo sconfitto da tempo, dicono gli storici dell’epoca, almeno nel morale. Da quando i Regi Carabinieri l’avevano fatto salire su di una finta ambulanza, arrestandolo all’uscita dal Quirinale dove il Re d’Italia gli aveva revocato l’incarico conferitogli venti e passa anni prima, per condurlo al confino di Campo Imperatore – lui che di gente al confino ne aveva mandata un bel po’ –, da cui l’avrebbero liberato i fallschmirjager di Otto Skorzeny mandati dal suo amico-alleato Hitler. I tedeschi avrebbero condotto a Salò, la nuova sede del suo governo, un uomo il cui nome ancora incuteva in egual misura odio o rispetto in Italia e nel mondo, ma che dentro di sé non aveva più un’anima. Era solo un simulacro, un vinto alla fine di quella che era stata la battaglia di una vita. Una battaglia che sapeva di aver perso in modo inequivocabile.
Ne aveva fatta di strada Benito Amilcare Andrea Mussolini dalla sua prima notte a Dovia frazione di Predappio, provincia di Forlì – dov’era stato messo al mondo dalla madre Rosa Maltoni, maestra di scuola, sotto gli occhi ansiosi e trepidanti del padre, Alessandro Mussolini, fabbro ferraio con tendenze socialiste rivoluzionarie – a quella ultima che avrebbe trascorso accanto alla sua Claretta in quella camera da letto estranea, messagli a disposizione dalla famiglia De Maria a Bonzanigo, frazione Tremezzina, provincia di Como, a poca distanza da quella località di Dongo dove la sua corsa si era conclusa per mano dei partigiani. I De Maria erano partigiani anch’essi, e non discussero gli ordini che provenivano dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. Sapevano chi era il prigioniero illustre, accompagnato da signora altrettanto illustre, a cui dovevano cedere la camera da letto quella notte tra il 27 ed il 28 aprile 1945, e lo fecero senza battere ciglio.
Benito e Claretta trascorsero lì la loro ultima notte, sicuramente insonni, probabilmente abbracciati, con il film di una vita da rivedere e la consapevolezza che avevano solo quelle ultime ore per farlo. Il giorno dopo, l’alba seguente, altri ordini sarebbero arrivati da Milano, dove il C.L.N.A.I. si era insediato come governo nazionale provvisorio. In conseguenza di quegli ordini, soprattutto, sarebbe arrivato qualcuno a saldare conti che attendevano di essere saldati da più di vent’anni. Per il Duce e la sua amante, quella sarebbe stata l’ultima alba.
L’uomo più amato e odiato della prima metà del ventesimo secolo italiano quella notte aveva 61 anni compiuti. Ne avrebbe fatti 62 a luglio, il 29. Una data fatidica, come lo era stato tutto nella sua vita. Il 29 luglio 1900 Gaetano Bresci aveva posto fine alla vita del Re d’Italia Umberto I, sparandogli mentre attraversava il parco di Monza sulla carrozza reale.
Diciassette anni prima, in quel giorno, mamma Rosa aveva dato alla luce un bambino che si sarebbe dimostrato ben presto il più irrequieto dei ragazzi, e che il padre – capo di una famiglia dove si mangiava pane e socialismo, cucinato in salsa preferibilmente rivoluzionaria – aveva battezzato con il nome di tre capipopolo portati su da quel vento di tempesta che spazzava l’Europa ed il mondo, da quando Karl Marx gli aveva dato un nome. Benito, da quel Juarez che aveva sollevato il Messico contro Massimiliano d’Asburgo, l’imperatore mandato dalle corone europee; Amilcare, da quel Cipriani garibaldino, socialista, eroe della Comune di Parigi; Andrea, da quel Costa fondatore del Partito Socialista Italiano e primo amore di quella Anna Kuliscioff poi accasatasi con Filippo Turati, l’uomo che aveva fatto dell’idea socialista un partito politico.
Il giovane Benito aveva la strada tracciata, e la imboccò il giorno che andò a visitare il monumento a Umberto I a Monza. Gli storici sono pressoché sicuri che la mano ignota che tracciò su di esso la scritta monumento a Gaetano Bresci fosse la sua. Lo furono probabilmente anche la Questure del Regno, che non gli dettero pace per tutti gli anni in cui esercitò la professione di maestro di scuola alternandola a quella di agitatore rivoluzionario. Lo costrinsero più volte all’esilio, o addirittura all’arresto (come in occasione della Settimana Rossa del 1908, allorché condivise la cella con Pietro Nenni, l’amico fraterno da cui la vita e le scelte politiche si sarebbero incaricate di dividerlo irrimediabilmente).
Benito Mussolini avrebbe cambiato la storia d’Italia come pochi altri. Dando la spinta al Partito Socialista a diventare quello che forse non sarebbe altrimenti diventato, gettandolo tra le braccia dei massimalisti e poi facendosene espellere quando ormai la spinta propulsiva della breve ma grande tradizione socialista stava trasferendosi altrove. Dando la spinta al suo paese ad entrare in quella Grande Guerra in cui sarebbe forse entrato comunque (era praticamente inevitabile), ma con molto meno entusiasmo. Dando all’amico-concorrente Gabriele D’Annunzio la soddisfazione mista a stizza di organizzare in forma sistematica quei moti dell’animo e dell’ideale che il Vate aveva suscitato con l’impresa di Fiume, nonché la risposta istintiva dei moderati e degli squadristi italiani al Biennio Rosso. Dando all’Italia un programma politico, quello di Sansepolcro del 1919, che se fosse stato attuato ne avrebbe fatto la prima storica socialdemocrazia europea e mondiale, e forse addirittura una grande potenza. Dando al re d’Italia una comoda via d’uscita non tanto da quella comparsata che fu la Marcia su Roma del 1922, quanto da tutto ciò che vi si agitava attorno e contro – i prodromi di una guerra civile sul modello bolscevico del 1917 -, conferendogli un incarico di governo a lui ed al suo Partito Nazionale Fascista che lo Statuto di Carlo Alberto rendeva perfettamente legittimo e che avrebbe fatto tuttavia dell’Italia la prima dittatura moderna della storia ed il paese che avrebbe brevettato termini e modi di pensare e di agire rubricati come Fascismo, fascista, totalitarismo.
Benito Mussolini era stato un italiano medio in tutto e per tutto, capace di elevarsi tuttavia da quella media con il proprio fiuto politico, la sua mancanza di scrupoli, la sua volontà di potenza (appresa più nelle scazzottate tra gruppi rivoluzionari e sovversivi della natìa Romagna che nelle aule dove si insegnava la filosofia di Nietzsche), la sua intelligenza che non gli consentiva di sbagliare un colpo, almeno fino a quel fatidico 1936 dopo del quale li sbagliò praticamente tutti.
Benito Mussolini era un figlio del popolo, e ricordava bene la miseria di quel popolo da cui proveniva. Lo Stato Sociale lo inventò lui, ripensando agli stenti ed alle sofferenze dei suoi cari, alle bestemmie del babbo che sbarcava a fatica il lunario (quando uscì dal Quirinale come presidente del consiglio il 30 ottobre 1922, dopo la Marcia su Roma, testimoni riferiscono che con voce strozzata dall’emozione riuscì solo a commentare: s’ai foss’a ‘bba!…… se ci fosse il babbo, in dialetto romagnolo), agli sforzi della mamma che cercava di mettere in tavola ai figli ogni giorno un po’ di cibo e nella loro testa un po’ di istruzione (religiosa, aveva insistito col marito socialista affinché Benito e gli altri figli fossero battezzati, forse presentendo che soprattutto quel turbolento primogenito dell’acqua santa ne avrebbe avuto assai bisogno, nel corso della sua vita).
Benito Mussolini figlio del popolo lo era rimasto anche quando quel suo popolo lo aveva profondamente tradito e deluso, dimostrandosi non all’altezza degli otto milioni di baionette che lui aveva sognato di mettere in campo, per realizzare gli immancabili destini imperiali dell’Italia. Quel popolo che lui aveva preso a disprezzare, dal suo confino di Campo Imperatore o dalla amichevole prigionia tedesca a Salò, dove avrebbe rilasciato il celebre commento secondo cui governare gli italiani non è difficile, è inutile.
A quel punto, il figlio del popolo aveva dimenticato da che popolo veniva, che gli italiani hanno sempre mal visto le guerre dei signori, e perfino il Risorgimento nazionale lo avevano vissuto abbastanza ai margini, almeno per quanto riguarda le cosiddette classi popolari. Aveva avuto buon gioco nello scatenare la Grande Proletaria, la patria italiana come la chiamavano i retori socialisti e dannunziani, verso il completamento del Risorgimento fino a Trento e Trieste, nel 1915. Nel 1940 sarebbe stata tutta un’altra faccenda. A Piazza Venezia il 10 giugno c’era il pienone a sentirgli dire che la dichiarazione di guerra era stata consegnata nelle mani degli ambasciatori di Francia e di Inghilterra, e che l’ora segnata dal destino batteva sul cielo della patria. E a riempire subito dopo l’aria di urla esultanti. Quella gente, poi, la sera a casa cominciò subito a sintonizzarsi su Radio Londra, per sapere quando sarebbe finita. Per sapere che fine avremmo fatto, come nazione, come paese, come civiltà.
Che fine avrebbe fatto lui, doveva essergli chiaro, quell’ultima notte tra il 27 ed il 28 aprile 1945, in quella stanza da letto misera e spoglia dei contadini De Maria, che avrebbero potuto raccontare per il resto della propria vita di avere avuto in casa il Duce, insieme a quella là, prima che…..
Prima che arrivassero gli ultimi ordini da Milano, dal C.L.N.A.I.. Mussolini rivide il film della sua vita, e non sapremo mai che voto si dette alla fine. Forse si limitò soltanto a stringere a sé Claretta, per quelle ultime ore concesse a loro insieme. Non era credente, per cui non poté pensare di averne un’altra di vite che lo aspettava. Magari addirittura migliore. Lo aspettava un plotone di esecuzione, e tutto si sarebbe concluso così. Senza epica. Senza gloria. Senza più senso.
La mattina del 25 aprile un ultimo sprazzo della sua vecchia intelligenza politica gli aveva mostrato l’ultima strada rimastagli aperta, l’ultima via di fuga, verso quel ridotto della Valtellina dove i fedelissimi repubblichini gli avrebbero organizzato una difesa ad oltranza, consentendogli di raggiungere la Svizzera neutrale. Dove, secondo un calcolo politico probabilmente non del tutto sbagliato, avrebbe potuto contare su un trattamento misericordioso da parte degli Alleati, interessati al suo valore simbolico (da vivo), ai suoi segreti, perfino forse a quel fantomatico suo tesoro su cui si fantasticava e si sarebbe continuato a fantasticare per lungo tempo dopo la sua morte.
Un Mussolini esibito come trofeo e simbolo del Male, per sconfiggere il quale si era reso necessario l’Armageddon della Seconda Guerra Mondiale, tentava molto gli americani. Tentava poco gli inglesi, che avevano interesse a far dimenticare i lunghi anni in cui il Duce era stato visto dal Governo di Sua Maestà come il faro della civiltà europea, il baluardo contro il bolscevismo, la ricetta migliore per elevare ad un progresso civile incredibile un paese incredibilmente arretrato come l’Italia, o come molti altri sul continente e sul pianeta.
Ma soprattutto, tentava per nulla i partigiani, soprattutto quelli comunisti, che volevano togliere da un lato agli Alleati qualsiasi tentazione, e dall’altro a fascisti ed ex fascisti qualunque simbolo intorno a cui riaggregarsi un domani nel dopoguerra complicato che si prospettava, di nuovo dilaniato da un’altro probabile conflitto tra due potenze fortemente ideologiche come USA ed URSS.
Mussolini cadde nelle mani dei partigiani a Dongo, a pochi chilometri dal confine svizzero, e a quel punto il suo destino era segnato. Nessuno nel C.L.N.A.I. voleva un processo pubblico al Duce, a cominciare da quei Pertini, Longo e Valiani che il Duce stesso aveva incontrato scendendo le scale dell’Arcivescovado milanese la mattina del 25, mentre infuriavano le trattative per la resa dei nazifascisti agli angloamericani e ai partigiani.
La mattina del 28, dopo l’alba, a prelevare l’ex capo del regime abbattuto arrivò il gruppo di Walter Audisio, nome di battaglia comandante Valerio. Gli ordini erano secchi e precisi: fucilazione, senza processo. La sentenza era stata già emessa da un tribunale lontano, che a quel punto agiva in nome del popolo, avesse o meno il diritto di farlo.
Mussolini capì di essere alla fine dei suoi giorni ancora prima di essere portato di fronte al cancello di Villa Belmonte, a Giulino di Mezzegra, poco più in là di dove aveva trascorso la sua ultima notte. Gli ordini dei partigiani non comprendevano Claretta Petacci, che avrebbe potuto salvarsi. Scelse di rimanere accanto al suo Ben, fino alla fine. E di essere falciata dalla stessa scarica di mitra che chiuse una fase storica in Italia e ne aprì un’altra. Fatta di nostalgici di ambo le parti, che non avrebbero mai saputo riconciliarsi gli uni con gli altri. Che non avrebbero mai imparato nulla da quei tragici eventi, culminati in quei tragici spari al cancello di Giulino e che lungi da diventare una circostanza storica fondante – come la decapitazione di Luigi XVI a Place de la Concorde a Parigi – sarebbero rimasti a risuonare come echi nel vento di mille polemiche senza fine.
Non era nemmeno finita lì. La parabola umana di Benito Mussolini Duce del Fascismo si era conclusa, quella delle sue spoglie mortali no. Erano attese a Piazzale Loreto a Milano, accanto a quel distributore di benzina dove qualche mese prima erano stati fucilati dei partigiani, e dove adesso i partigiani attendevano di poter esibire simbolica vendetta. Le dittature finiscono sempre così, con il corpo del dittatore, dei suoi gerarchi e della sua amante, compagna, moglie esposti al pubblico ludibrio. Benito e Claretta vennero appesi a testa in giù, assieme ad altri gerarchi fucilati nel frattempo. Claretta prima di morire non aveva fatto in tempo ad indossare biancheria intima, o forse non ne aveva con sé nelle ultime ore della sua vita. L’ esposizione della sua intimità gettò un’ombra sulla vendetta popolare, da cui la sua legittimità – per altri versi almeno comprensibile – non si è mai ripresa.
A Giulino di Mezzegra restò una targa con una croce. Benito Mussolini, 28 aprile 1945. Un luogo di ritrovo per nostalgici, come la tomba del Duce a Predappio che Donna Rachele con il tempo ottenne che fosse edificata (Claretta, che a quel punto non aveva simpatizzanti in nessuno degli schieramenti dei reduci né tantomeno nella bacchettona Italia del dopoguerra, riposa nella tomba di famiglia al cimitero del Verano a Roma). Un luogo di storia, che nemmeno i partigiani dell’A.N.P.I. hanno mai messo in discussione. La storia è una sola, discuterla non conviene a nessuno, quali che siano le ragioni di parte. Potrebbe sempre rivoltarsi contro chi ha creduto di codificarla una volta per tutte. E riportarci tutti quanti un giorno a quel cancello di Giulino di Mezzegra, dove credevamo tutti di aver capito tutto, una volta per tutte.
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