La vicenda Diciotti si è conclusa, i migranti sono sbarcati. Gli occupatori dei mezzi di informazione e quelli del suolo pubblico cantano vittoria, mentre il Procuratore della Repubblica di Agrigento incrimina il Ministro dell’Interno Matteo Salvini per tutta una serie di reati usciti dalla sua fantasia (da oggi, è la vera novità, i PM fanno giurisprudenza anche in ambito penale, ed è una novità assoluta nell’ordinamento giuridico italiano).
Ma in realtà Matteo Salvini non esce da questa vicenda da sconfitto, anzi. Alla fine, prima ancora della gente comune che si sta riversando sui suoi profili nei social networks (tre milioni di contatti soltanto stanotte), il governo l’ha sostenuto, un po’ per convinzione dell’importanza della questione in gioco, un po’ per consapevolezza che l’alternativa era la crisi, con due possibili esiti: l’intervento del Mattarella silente con la riproposizione del Cottarelli-bis oppure libere elezioni, con la prospettiva che stavolta la Lega le stravinca da sola.
No, Salvini esce da vincitore, ed è una vittoria meritata perché per ritrovare un ministro italiano capace di tenere duro in faccia a poteri apaprentemente più forti ma meno giustificati su una questione di diritto così importante bisogna risalire addirittura a Bettino Craxi. La Diciotti rischia di essere per la sinistra ed i suoi tributari nelle istituzioni ciò che Sigonella fu per gli americani e la NATO, fatte le debite proporzioni.
Alla fine, la vicenda si sblocca per il bel gesto dell’Albania, che sceglie questo momento per dimostrare gratitudine all’Italia («eravamo noi i profughi in un’altra circostanza drammatica, e voi ci avete accolti»), e per quello analogo ma che definiremmo più eclatante che bello della Chiesa Cattolica. Bergoglio, dopo anni di predicazione nel deserto (delle coscienze e dei fatti concreti) sceglie alla fine di tornare a Gerusalemme e darsi da fare, aprendo ai migranti qualche struttura vaticana delle innumerevoli a disposizione. E tirandosi dietro quell’Irlanda che, pur di vedergli fare qualcosa di concreto anche sul dramma dei preti pedofili, probabilmente è disposta ad assecondarlo su qualsiasi cosa.
I 137 della Diciotti sgombrano dunque il campo, e buona fortuna. Dev’essere stata dura la loro ultima giornata attraccati al molo di Catania e costretti a sorbirsi le visite delle varie Boldrini e Boschi. E per fortuna è stata risparmiata loro Asia Argento, con i chiari di luna attuali. Più dura sgombrare il campo dai sit-in e dalla loro degenerazione finale: visto che non sfondavano con il diritto e le azioni dei loro referenti istituzionali e giurisprudenziali, i manifestanti hanno pensato bene alla fine di sfondare con la forza, incitati a ciò anche da interventi come quello dell’ex assessore napoletano PD Guglielmo Allodi che ha dichiarato giunto «il momento della lotta armata contro Salvini». Su questa ed altre circostanze la magistratura inquirente si guarderà bene dall’ indagare, riteniamo, men che meno di aprire fascicoli. Ha troppo da fare, riteniamo parimenti, a perseguire i sequestratori della Diciotti.
I risvolti giudiziari di una vicenda che, non fosse per il comportamento ineccepibile tenuto dal governo, si configurerebbe come la Caporetto della legalità italiana, impongono all’attenzione dell’opinione pubblica nostrana come non più rimandabile la riforma della giustizia. Mettere sotto controllo democratico le azioni di questa magistratura, pur nel rispetto dell’autonomia costituzionale, è a questo punto un dovere civico prima ancora che un diritto individuale e collettivo. Chiedere conto non solo dei fondamenti giuridici di certe indagini, nonché delle spese che ne derivano ai contribuenti, lo è altrettanto, e se non se ne incaricano gli organi esistenti come il Consiglio Superiore della Magistratura dovranno farsene carico i cittadini attraverso gli strumenti normativi offerti loro dalla Costituzione e dalle leggi. Quelle almeno che non sono state cancellate o bruttate dagli ultimi governi prima dell’attuale.
Per altri attori di questa tragicommedia, il discorso è diverso. Per i militari insubordinati c’è il ricorso al codice militare di pace, la sostituzione con comandanti più fedeli al paese che servono ed alle sue legittime istituzioni rappresentative piuttosto che alla parte che li ha messi dove sono (ogni riferimento alla vicenda Delrio – Pettorino è assolutamente voluto). E con il disarmo, se serve, di queste motonavi che devono smetterla di incrociare nel Canale di Sicilia come i taxi alla Stazione Termini.
Per i media, vale la vecchia regola enunciata da quel grande giornalista che fu Indro Montanelli. L’unico giudice, l’unico padrone di chi fa informazione è, o dovrebbe essere, il lettore. Giornali come Repubblica continueranno liberamente (e ci mancherebbe) a raccontare le loro storie alternative, nel rispetto dell’asino e di dove il padrone – pardon, l’editore – vuole che sia legato. Ma venderanno sempre meno, è auspicabile. Perché al popolo italiano le balle non gliele racconti più, che ti chiami Scalfari, Mauro o Calabresi.
A Catania ha perso la legge, non Salvini. Ha perso il popolo italiano, non ha vinto quella solidarietà pelosa della sinistra di Capalbio che ieri ha visto dar ragione alla propria gazzarra continuativa e che da stamattina se ne può tornare a fregare della stessa sorte di quei migranti che sono sbarcati grazie a lei in un paese stremato, che non ha più le risorse per sfamare chi ci vive già, figuriamoci per accogliere altre persone.
Della U.E. non parliamo, la resa dei conti è vicina, ed è stato Conte – ci si perdoni il bisticcio di parole – a ribadirlo. Non il fascista Salvini o il pressappochista Di Maio, ma il professor Conte, il premier, uno che il diritto lo insegna e non lo violenta a piacimento. «Siamo al lavoro per porre una riserva all’adesione dell’Italia al piano finanziario pluriennale in corso di discussione. A queste condizioni, l’Italia non ritiene possibile esprimere adesione a un bilancio di previsione che sottende una politica così incoerente sul piano sociale».
Ci vediamo a settembre, Europa.
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