Nella foto: Pietro Mennea, la lunga rincorsa all’oro olimpico finisce allo Stadio Lenin
Sul braciere olimpico morente di Montreal avvenne un passaggio di consegne storico, con la delegazione canadese che consegnava la bandiera dei cinque cerchi a quella russa. Il Comitato Olimpico Internazionale, assegnando la ventiduesima edizione dei Giochi a Mosca aveva fatto un atto di coraggio, decidendo che era tempo di andare ad esplorare il più ignoto dei continenti.
L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche non aveva un cerchio a rappresentarla sulla bandiera olimpica, ma era stata fino a quel momento a tutti gli effetti un mondo a sé stante, isolato dal resto del pianeta per quanto in continua espansione con i suoi satelliti che anno dopo anno erano andati ad aggiungersi al cosiddetto Blocco Comunista.
Alla metà degli anni settanta, con il vento di sinistra che spirava perfino sulle nazioni del Blocco Occidentale, molti percepivano che fosse tempo di rompere quell’isolamento, di aprire quel continente alla esplorazione straniera e di portare a nuove conseguenze quella politica di apparente apertura all’Est inaugurata da Nixon e che la nuova amministrazione americana guidata da Jimmy Carter prometteva di sviluppare, chiudendo la lunga stagione della guerra fredda e di quelle guerreggiate ma localizzate in teatri circoscritti del mondo, come il Vietnam la cui tragedia si era appena conclusa.
Malgrado lo sport fosse fatto oggetto di sempre più frequenti (e spesso tragiche) strumentalizzazioni, il sentimento comune al momento della designazione di Mosca per l’anno olimpico 1980 era stato quello secondo cui la vecchia tregua achea di Olimpia potesse funzionare una volta di più in un mondo divenuto complicato a dismisura nell’epoca moderna.
Il calcio aveva fatto da apripista, andando nel 1976 a giocare gli Europei in Jugoslavia. Pur essendo stato un evento di portata organizzativa ridotta (allestito per di più in un paese che formalmente non era allineato al Patto di Varsavia, ma che appunto si fregiava della leadership dei cosiddetti Non Allineati), aveva funzionato.
Tutto era pronto dunque per portare la fiaccola (ed il business olimpico) a Mosca. Bisognava soltanto incrociare le dita, che non accadesse nel frattempo qualche evento che rinfocolasse la sempre latente tensione tra i Blocchi e tra i mondi contrapposti.
Bastava poco, e quel poco tuttavia si verificava regolarmente. E puntualmente si verificò. Nei quattro anni successivi al 1976, il mondo conobbe una recrudescenza della Guerra Fredda al cui confronto la Crisi dei Missili di Cuba sembrò ad un certo punto una bazzecola.
Il 1979 fu l’annus horribilis della presidenza Carter. Nel gennaio, l’Iran passò dal controllo dell’alleato Shah Rezah Pahlevi a quello dell’Imam Ruhollah Khomeini, fin da subito il peggiore dei nemici degli U.S.A. dopo l’U.R.S.S.. La quale per parte sua, nel dicembre, attuò la ormai collaudata tecnica dell’aiuto fraterno invadendo l’Afghanistan a sostegno del locale regime filocomunista in difficoltà.
Era tempo di reagire per gli Stati Uniti, ma in attesa delle elezioni del novembre 1980 che avrebbero visto l’annunciato trionfo del falco Ronald Reagan, la prima iniziativa assunta dagli U.S.A. nell’immediato fu l’annuncio del boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca. La tregua olimpica era saltata prima ancora di essere dichiarata, e la fiaccola riaccesa.
L’unico confronto sportivo U.S.A. – U.R.S.S. di quel 1980 fu la leggendaria finale dell’Hockey su Ghiaccio di ai Giochi invernali di Lake Placid il 22 febbraio, allorché una squadra di dilettanti universitari riuscì sul campo amico a togliere ai sovietici una medaglia d’oro che era loro da quattro edizioni. Fu l’evento sportivo poi reso celebre dal film della Disney Miracle, con Kurt Russell nei panni del coach Herb Brooks. La gara sarebbe rimasta famosa anche per il drammatico conteggio finale scandito dalla telecronaca della rete televisiva ABC: «Undici secondi, vi restano dieci secondi, stanno contando alla rovescia in questo momento… Morrow passa a Silk, restano cinque secondi di gioco! Credete nei miracoli? Sì!»
In estate, a Mosca, il miracolo non si ripeté. Gli U.S.A. non c’erano. Dei suoi alleati della N.A.T.O., solo la Germania Ovest seguì il loro esempio. Gli altri, Italia compresa, pur esecrando l’invasione dell’Afghanistan scelsero di partecipare de facto, rinunciando a sfilare con la propria bandiera ed il proprio inno e soprattutto attribuendo ai propri atleti lo status di militari. Perfino la Cina Comunista, nel frattempo ammessa ai Giochi, se ne tenne fuori per protesta contro la politica sovietica. In totale, 65 furono i paesi assenti, 80 quelli a vario titolo partecipanti.
Il 19 luglio 1980 Leonid Breznev aprì i giochi della XXII^ Olimpiade allo Stadio Lenin di Mosca. Lo spirito di Olimpia non aveva toccato mai così il fondo come nella sua prima manifestazione in un paese comunista. Eppure, per quanto menomata e sconvolta dalla politica, anche quella di Mosca fu un’Olimpiade che si lasciò dietro una bella galleria di ritratti.
Per l’Italia, furono i Giochi della rinascita, con un ritorno al quinto posto del Medagliere e otto Ori complessivi. A cominciare da quello di Pietro Mennea, che al terzo tentativo conquistò il suo in una drammatica finale dei 200 metri in cui riuscì a stare avanti allo scozzese Alan Wells per due centesimi di secondo. Wells aveva vinto i cento metri, così come i connazionali Sebastian Coe e Steve Owett si erano equamente divisi 800 metri e 1.500. L’etiope Yfter successe a Viren nella doppietta 5.000 e 10.000.
Nell’Alto, Sara Simeoni trasformò in oro l’argento di Montreal dopo aver tolto alla Ackermann nel 1978 anche il primato mondiale con 2,01. Spettacolari anche le vittorie di Maurizio Damilano in una drammatica 20 km di Marcia, di Patrizio Oliva nella finale del Pugilato Superleggeri contro l’atleta di casa Konakbaev, di Ezio Gamba per la prima volta vincitore azzurro nel Judo. Luciano Giovannetti cominciò proprio a Mosca l’epopea della scuola italiana di Tiro Fossa Olimpica. Federico Roman confermò la bontà di quella di Equitazione. Claudio Pollio fece l’outsider nella Lotta Libera.
Nel basket, in assenza degli USA sembrava un discorso tra URSS e Jugoslavia, ma la leggendaria nazionale azzurra di Sandro Gamba si mise nel mezzo con i suoi Meneghin, Marzorati & C. eliminando a sorpresa i padroni di casa in semifinale e cedendo agli jugoslavi di pochi punti in finale.
Eravamo andati a Mosca in tono minore, perplessi e per nulla convinti di stare facendo la cosa giusta, come a Santiago del Cile nel 1976 e a Buenos Aires nel 1978. Come in quei casi, tornammo entusiasti. Talmente entusiasti da farci sfuggire il gesto eclatante delle autorità sovietiche, l’ultimo di una serie di sgarbi non soltanto sportivi tra le superpotenze.
Il 3 agosto 1980, spegnendo il loro braciere, i russi riconsegnarono la bandiera olimpica al C.I.O. e non agli statunitensi che l’avrebbero issata di nuovo quattro anni dopo a Los Angeles. Lasciando tra l’altro intendere che avrebbero reso pan per focaccia in quella circostanza.
Per quindici giorni ci eravamo dimenticati quasi che il mondo era stato per più di trent’anni sull’orlo della terza guerra mondiale. Adesso ci ritornava, apertamente e intenzionalmente. Il vento di sinistra era caduto, quello che soffiava tra i due Blocchi era di nuovo freddo. Come la guerra che sembrava sempre più inevitabile.
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