Nella foto: 2.10.1988, Gelindo Bordin fa il suo ingresso solitario nello stadio olimpico di Seul per gli ultimi metri della Maratona
A Mosca ed a Los Angeles gli assenti avevano finito per aver torto e non dimostrare niente. Quattro anni dopo la fiaccola si spostava nuovamente in Asia: a Seul, nella capitale della parte Sud di quel paese che al pari della Germania simboleggiava la divisione del mondo in blocchi: la Corea.
Quattro anni dopo, il mondo aveva voglia più che mai di superare quella divisione in blocchi, che ormai era logora nello spirito prima ancora che nei fatti. L’U.R.S.S. stava subendo i profondi cambiamenti imposti dalla perestrojika di Gorbaciov, ed era ormai ad un anno soltanto di distanza dal suo disfacimento definitivo. Gli U.S.A. erano alla fine della presidenza Reagan, indebolita nel secondo mandato dagli scandali Iran-Contras, con annessi e connessi.
Quando la fiamma olimpica fu riaccesa a Calgary, in Canada, per i Winter Games il 13 febbraio 1988 (sulle celebri note della Fanfare for the Common Man di Emerson, Lake e Palmer), non mancava più nessuno. Nessuno aveva voglia più di mancare. Nessuno si perse la straordinaria performance di un ragazzone italiano venuto fuori quasi dal nulla, che nella stagione in corso stava contendendo la Coppa del Mondo di Sci Alpino al più quotato ed esperto svizzero Pirmin Zurbriggen. E che a Calgary divenne il Figlio del Vento che Soffia sulla Neve. Alberto Tomba da San Lazzaro di Savena si impose nello Slalom Gigante prima e nello Speciale poi, riportando il suo sport in auge in un paese orfano da tempo della Valanga Azzurra e dando il via ad una carriera decennale che l’avrebbe portato nel firmamento delle grandi stelle italiane dello Sci, assieme a Zeno Colò e a Gustav Thoeni.
Il 17 settembre il braciere fu riacceso a Seul. Anche stavolta, il protagonista più atteso era e doveva essere lui, il nuovo Figlio del Vento. Ma su Carl Lewis e i suoi sostenitori si era abbattuta una bufera, quella del canadese Ben Johnson, che a Roma ai Mondiali dell’anno precedente aveva stracciato il rivale statunitense con un mostruoso 9’83’’. Seul doveva essere il teatro della rivincita, che apparentemente invece non ci fu. Johnson ripeté la sua prestazione monstre, Lewis si fermò a 9’92” e poi, come intristito, finì secondo anche nei 200 ed eliminato in staffetta nelle batterie. L’erede di Owens sembrava dover tornare a casa con la sola medaglia d’oro del Lungo, quando accadde l’incredibile. Johnson fu trovato positivo nel più clamoroso caso di doping dell’epoca, la sua vittoria revocata, il suo tempo cancellato. I 100 andarono a Lewis il cui 9’92” rimase come record mondiale effettivo.
A Seul, Unione Sovietica e Germania Est conquistarono per l’ultima volta il primo e secondo posto del medagliere. Nessuno poteva immaginare che di lì a poco sarebbero diventate vestigia di un passato morto e sepolto. E che il dilettantismo di stato, sconfinato spesso e volentieri nel doping di stato, non sarebbe confluito nel patrimonio sportivo delle nazioni sorte dal loro disfacimento.
Altre grandi figure di quella Olimpiade furono sempre il tuffatore americano Greg Louganis, mentre nel nuoto il suo connazionale Matt Biondi prese il posto che era stato dell’Albatross Michael Gross. Tra le donne, exploit della nuotatrice tedesca orientale Kristin Otto, e della velocista americana Florence Griffith–Joyner, destinata purtroppo a breve scadenza ad un tragico destino. Nel tennis, riammesso alle Olimpiadi per la prima volta dopo sessant’anni, trionfo della tedesca Steffi Graf che rese così golden il Grande Slam conseguito proprio quell’anno.
Negli sport di squadra, successi a sorpresa ancora degli U.S.A. nella pallavolo e soprattutto dell’U.R.S.S. nel basket, con gli U.S.A. al terzo posto per effetto di un dilettantismo che non aveva più ragione di esistere e a cui si sarebbe clamorosamente ovviato a partire dall’edizione successiva. Successo anche nel calcio di un U.R.S.S. al canto del cigno, ancora ai danni del Brasile.
Per l’Italia, un decimo posto finale nel Medagliere con sei ori vinti, un piazzamento senz’altro più veritiero complessivamente di quelli di Mosca e Los Angeles. Ma in compenso la soddisfazione più grande di tutte, almeno per chi ama le Olimpiadi nella loro vera essenza. Il 2 ottobre 1988 nello Stadio Olimpico di Seul dove si concludeva – come da tradizione – l’ultima gara del programma olimpico, la Maratona, fu l’italiano Gelindo Bordin a fare il suo ingresso solitario e vittorioso sulla pista dove l’Italia attendeva quel trionfo da ottant’anni, da quando la sorte aveva voltato le spalle beffarda a Dorando Pietri a Londra.
E noi ce lo ricordiamo come fosse oggi scandire le ultime falcate verso la medaglia d’oro più prestigiosa con l’accompagnamento delle parole dello scomparso Paolo Rosi, che proprio quel giorno realizzava la sua ultima telecronaca per la R.A.I. Parole non dissimili da quelle, immaginiamo, che avevano degnamente celebrato la prima impresa di quel genere compiuta da un portaordini di nome Filippide, nel 490 a.C.
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