Welcome to London! Così concluse la sua esibizione Paul McCartney, il più prestigioso e carismatico degli ospiti saliti sul palco dell’Olympic Stadium di Londra per la cerimonia di apertura della XXX^ Olimpiade, il 27 luglio 2012. Dal Fiume Giallo al Ponte di Londra, tanta acqua era scorsa da quando Boris Johnson, sindaco della capitale britannica, aveva ricevuto la bandiera olimpica dal suo omologo pechinese Guo Jinlong.
Tanta acqua, tante polemiche, tanto astio. Londra aveva superato la concorrenza di altre capitali, come Parigi, Madrid, New York e Mosca. Soprattutto con l’amica-rivale dirimpettaia francese il gioco si era fatto pesante. Alla vigilia dello spareggio tra Londra e Parigi, il presidente francese Jacques Chirac se n’era uscito con un «non si può confidare in gente che mangia un cibo così cattivo (gli inglesi, n.d.r.), peggio di loro ci sono soltanto i finlandesi». Finlandesi erano giustappunto due dei membri del C.I.O., quelli che espressero i due voti che fecero la differenza.
Polemiche a parte, i Giochi tornavano a Londra per la terza volta nella storia, dopo l’edizione del 1908 che li aveva configurati per il ventesimo secolo, e quella del 1948 che si era svolta sulle macerie causate dai blitz e dalle V2 di Hitler. L’unica città al mondo che avrebbe potuto vantare, in caso di nomination, un simile tris prestigioso era appunto Parigi. Inevitabile che i francesi prendessero male la sconfitta.
Londra comunque fece da par suo. Nella cerimonia di apertura furono celebrate, un po’ troppo ampollosamente forse, tante cose appartenenti alla nostra civiltà occidentale che avevano trovato origine nelle Isole Britanniche, a cominciare dalla maggior parte degli sport in cui si sarebbe gareggiato sotto i Cinque Cerchi. Gli spot olimpici prima e durante la cerimonia si erano avvalsi del Globe Theatre shakespeariano con Joseph Fiennes, di una gloria olimpica come Sebastian Coe, di una gloria calcistica come David Beckham, di una gloria cinematografica come Roger Moore, vecchio 007 in pensione. Con il suo attuale successore Daniel Craig paracadutato per fiction su Buckingham Palace, dove era incaricato di prelevare nientemeno che Sua Maestà la regina Elisabetta, per scortarla allo Stadio Olimpico dove era attesa per l’apertura dei Giochi.
Nello stadio, un’altra regina, J.K.Rowlings aveva nel frattempo immerso tutti in mondovisione nell’atmosfera magica del suo Harry Potter, mentre un’altra magia era stata poi compiuta da Mohamed Alì, che sedici anni dopo Atlanta era sceso nuovamente su una pista olimpica, stavolta per portare a destinazione la Bandiera dei Cinque Cerchi. Per gli ultra-nostalgici, il comitato organizzatore aveva inoltre stabilito che le cerimonie di premiazione di ogni competizione fossero accompagnate da Chariots of Fire, la colonna sonora realizzata nel 1981 da Vangelis per l’omonimo suggestivo film sulle Olimpiadi parigine del 1924.
C’era di che struggere il cuore del mondo intero, prima ancora che gli atleti scendessero in pista. In particolar modo, per la generazione che aveva vissuto la swinging London degli anni Sessanta, il richiamo era forte. Le Olimpiadi più rock e glamour della storia avrebbero dovuto avere come inno ufficiale addirittura un monumento musicale come London calling dei Clash. Poi, in ragione delle perplessità sollevate dal testo della canzone (uno scenario post-atomico che in effetti ha poco a che fare con la materia olimpica), il Comitato Organizzatore ripiegò sulla più rassicurante ma assai meno suggestiva Survival dei Muse.
La XXX^ Olimpiade vide scritte le sue belle storie di vita e di sport al livello delle migliori edizioni. La Cina a Londra tornò sul Pianeta Terra, riprendendo il suo posto nel Medagliere alle spalle degli Stati Uniti. La Gran Bretagna scalò un’altra posizione finendo terza, miglior risultato di sempre. Cannibali come Michael Phelps e Usain Bolt furono capaci di allungare di altri quattro anni la loro leggenda. Niente comunque in confronto all’impresa delle donne americane e cinesi, capaci nel loro complesso di superare i maschi nel numero di medaglie conquistate per i loro paesi. O di superare ostacoli ancora più grandi emergendo in paesi e in realtà sociali dove la condizione femminile è ancora problematica, se non drammatica. Un nome su tutti, quello di Sarah Attar, la judoka saudita prima donna della storia qualificata alle Olimpiadi per il suo paese. L’eco della standing ovation che ricevette entrando nella Wembley Arena non si spegnerà tanto presto nelle orecchie di chi vi assistette.
L’Italia. Storie di sempre, quelle di ragazzi che per quattro anni lottano e si sacrificano per pochi giorni di notorietà, in un paese dove gli impianti sportivi latitano, le federazioni servono ormai da anticamera della politica, la stampa stessa si ricorda di loro solo per riempire pagine che d’estate sarebbe difficile riempire altrimenti. E il tutto finisce con un ricevimento al Quirinale, poi di nuovo l’oblio.
Belle storie comunque, appassionanti. Il passo d’addio di alcune grandi signore dello sport italiano. Valentina Vezzali (capace di portare ancora il punto decisivo per l’oro della squadra di Fioretto femminile) e Josefa Idem, mentre Federica Pellegrini avrebbe deciso di ritentare la sorte a Rio. Lacrime di gioia di squadre che si ritrovarono (come la Pallavolo, terza, e la Pallanuoto, seconda), e quelle di rabbia di altre che si persero (come il Calcio ed il Basket, neanche qualificate alle fasi finali dei rispettivi tornei). Medaglie italiane conquistate all’ultima freccia (come quella d’oro di Frangilli, Galiazzo e Nespoli), e pugni inglesi immaginari contro volti italiani che avevano già l’espressione d’orgoglio per un nuovo trionfo, come quello di Cammarelle (già oro a Pechino) sconfitto dalla giuria ma non dall’avversario, l’inglese Anthony Joshua.
28 medaglie complessive, come quelle conquistate un mese dopo dai colleghi atleti paralimpici sempre a Londra nelle Olimpiadi di categoria. Un risultato che definire storico é dire poco, considerato che l’Italia normodotata a Londra si confermò al nono posto del Medagliere, in un contesto senza più boicottaggi e che inoltre aveva preso a lottare seriamente contro il doping. Lo storico pareggio fu tutto merito dunque del movimento sportivo paralimpico, salito finalmente in alto non solo in Italia ma in tutto il mondo, come avrebbe orgogliosamente rilevato un Oscar Pistorius, l’atleta più veloce senza gambe, finalmente ammesso dal C.I.O. anche alle Olimpiadi oltre che alle Paralimpiadi, e non ancora finito sotto giudizio davanti a ben altro tribunale per le sue note vicende private.
Quando fu il momento si salutare i Cinque Cerchi, Sebastian Coe a nome della nazione ospitante poté a buon diritto dichiarare: When came Great Britain’s time, we did it right. E gli Who superstiti intonarono una struggente e travolgente (come sempre del resto) My generation che sembrò un saluto ad un’epoca, piuttosto che ad un evento o ad una città.
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