Nella foto: il Figlio del Vento è tornato
James Cleveland Owens detto Jesse, l’uomo che aveva messo di malumore Adolf Hitler battendo sotto il suo naso tutta la Razza Ariana nella corsa veloce e nel salto in lungo, morì a Tucson in Arizona il 31 marzo 1980. Aveva atteso per tutta la vita di ricevere un riconoscimento dalla Casa Bianca per quanto aveva fatto in quei giorni leggendari dell’agosto del 1936. Ignorato quasi da Franklin Delano Roosevelt, aveva dovuto aspettare Gerald Ford 40 anni dopo le sue imprese per vedersi conferire la Medaglia Presidenziale della Libertà.
Quando il Figlio del Vento fu portato via da un male incurabile, Frederick Carlton Lewis detto Carl non aveva neanche 19 anni. Come Jesse, anche Carl era originario dell’Alabama. Come Jesse, anche Carl era stato portato via dall’Alabama in tenera età da genitori in cerca di una vita più vivibile, se non addirittura migliore. A quanto pare, Birmingham nel 1961 non era poi tanto migliore di Oakville nel 1913 per dei ragazzi di colore.
Come Jesse, Carl si vide aprire le porte del mondo universitario grazie alla velocità che era in grado di raggiungere in pista. Quando Carl fu selezionato per la squadra statunitense che doveva gareggiare alle Olimpiadi di Mosca del 1980, Jesse non c’era più. Ma intanto il Figlio del Vento al vento era ritornato. Il vento aspettava di nuovo qualcuno in grado di domarlo. Non l’avrebbe trovato a Mosca, perché gli U.S.A. boicottarono i giochi in casa di quell’U.R.S.S. che aveva appena invaso l’Afghanistan. E Carl dovette rimandare il suo appuntamento con l’eredità più prestigiosa che ci fosse in Atletica. Il suo momento sarebbe arrivato nel 1984.
L’anno più atteso del ventesimo secolo da quando George Orwell aveva scritto il suo omonimo capolavoro era arrivato con tutte le apparenti intenzioni di voler mantenere le previsioni di un destino comunque apocalittico. Nel 1983 l’abbattimento di un aereo di linea civile coreano da parte dell’aviazione sovietica aveva portato il mondo sull’orlo di un baratro che non aveva più conosciuto dal 1962, al tempo dei missili sovietici a Cuba. Un anno dopo, infuriava lo scontro frontale tra la superpotenza americana rinvigorita da Ronald Reagan e quella sovietica indebolita dalla incerta leadership dei successori di Leonid Breznev, con Gorbaciov ancora di là da venire.
La scelta del C.I.O. di riaffidare a Los Angeles l’organizzazione dei Giochi per la seconda volta dopo il 1932 involontariamente finì per risultare come benzina gettata su un fuoco che già divampava per conto suo. L’U.R.S.S. optò subito per la restituzione del trattamento resole dagli U.S.A. nell’80, adducendo il pretesto che le condizioni di vita delle corrotte e violente metropoli americane non assicuravano standards di sicurezza affidabili per la squadra olimpica sovietica. E così la XXIII^ Olimpiade fu la terza (e se Dio vuole ultima) consecutiva ad essere caratterizzata da un massiccio boicottaggio. Stavolta da parte di tutto il Blocco Sovietico, con l’unica eccezione della Romania dell’eretico sui generis Nicolae Ceausescu.
In inverno, i Giochi sulla neve si erano disputati in quella Jugoslavia che aveva perso da poco il suo dittatore, l’altro eretico sui generis Josip Broz detto Tito. A Sarajevo, dove erano ancora lontani ed inimmaginabili gli orrori della guerra civile post-comunista, l’Italia aveva riportato due medaglie d’oro prestigiose: il carabiniere altoatesino Paul Hildgartner al secondo trionfo nello slittino dopo Sapporo 1972, la bergamasca Paoletta Magoni vincitrice dello slalom speciale femminile.
Della mancata partecipazione di ben 14 delle nazioni del campo cosiddetto comunista (con le eccezioni ricordate di Romania e Jugoslavia a cui si aggiungeva quella della Repubblica Popolare Cinese), l’Italia sarebbe risultata una delle maggiori beneficiarie finendo quinta nel medagliere con 14 ori, record assoluto fino a quel momento. Il 28 luglio 1984 il Los Angeles Memorial Coliseum, opportunamente restaurato e rimesso a nuovo, riaprì nuovamente le sue porte alla fiamma olimpica e alle nazioni in gara esattamente 52 anni dopo la volta precedente. Ad oggi Los Angeles è una delle quattro città che hanno avuto l’onore di ospitare per più di una volta i Giochi, insieme a Londra, Parigi ed Atene.
Di quella cerimonia di apertura, caratterizzata dallo sfarzo celebrativo della superpotenza americana (proprio ciò che la propaganda avversaria aveva temuto ed addotto come pretesto aggiuntivo per il boicottaggio, sottolineandone i sentimenti sciovinisti e l’isteria anti-sovietica), si ricorda soprattutto l’esecuzione per la prima volta della Fanfara Olimpica del celebre compositore John Williams, seguita dall’Inno alla Gioia di Ludwig Van Beethoven. Una colonna sonora ed una scenografia sicuramente suggestive per dei giochi che alla fine si rivelarono memorabili soprattutto dal punto di vista tecnico.
Quelle Olimpiadi si ricordano principalmente perché il titolo di Figlio del Vento fu riassegnato. Carl Lewis rinnovò per quanto possibile la leggenda di Jesse Owens, vincendo 100, 200, staffetta 4×100 e salto in lungo. A quell’epoca, aveva 23 anni, proprio come Owens.
Ma i comprimari di Lewis furono tanti, a cominciare da Edwin Moses che dopo aver emozionato il mondo con la propria di emozione nel leggere il giuramento olimpico nella cerimonia d’apertura vinse la sua seconda medaglia d’oro nei 400 ostacoli, consecutiva senza contare l’assenza forzata del 1980 a Mosca. Nella stessa specialità al femminile, Nawal El Moutawakel fu la prima donna proveniente da un paese arabo (il Marocco) a vincere. Marocchino fu anche il vincitore dei 5.000, Said Aouita. Il portoghese Carlos Lopes vinse a 37 anni la maratona. Il tedesco Michael Gross detto l’Albatross, stabilì il proprio dominio nel nuoto, e l’americano Greg Louganis fece altrettanto nei tuffi.
Nei tornei a squadre, vittoria a sorpresa della Francia sul Brasile nel calcio, degli U.S.A. nella pallavolo sempre a sorpresa e sempre ai danni del Brasile. Per nulla a sorpresa fu la vittoria americana nel basket, che si ricorda soprattutto perché nella squadra che vinse l’oro militava un giovanissimo Michael Jordan, ai suoi ultimi giorni da dilettante prima di cominciare la sua carriera nei Chicago Bulls.
Le medaglie italiane annoverarono l’argento di Sara Simeoni, gli ori di Alberto Cova nei 10.000; di Gabriella Dorio nei 1.500; di Alessandro Andrei nel lancio del peso, di Vincenzo Maenza nella lotta greco-romana; di Luciano Giovannetti al bis nel Tiro Fossa Olimpica, degli spadaccini, dei ciclisti e dei pentathleti guidati da Daniele Masala; di Maurizio Stecca nel Pugilato Pesi Gallo, mentre a Francesco Damiani fu impedito da una giuria di parte di ripetere l’impresa di Patrizio Oliva a Mosca contro Tyrrell Biggs; di Norbert Oberburger nel sollevamento pesi; dei fratelli Abbagnale, che cominciarono proprio a Los Angeles la loro grande carriera.
Come a Mosca, gli assenti ai Giochi di Los Angeles alla fine ebbero torto, e non dimostrarono niente. Olimpia e la sua vecchia e tanto bistrattata tregua si erano prese la loro insperata ed incredibile rivincita, proprio quando sembrava che per loro tutto fosse perduto.
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