Alla mattina, Repubblica aveva scritto di negozi chiusi per paura di incidenti. Alla sera giornali radio e TG RAI inquadrano le nuvole e volano come Pindaro pur di non far risaltare cosa succede in città, e come il vecchio Tutto il calcio minuto per minuto, ordinano: interventi brevi, il PD è il campo principale.
Cinque minuti dalla Leopolda dove Renzi presenta il simbolo di un partito, Italia Viva, che promette di avere la stessa diffusione e lo stesso successo del Gronchi Rosa: roba da collezionisti. Altri cinque dalle stanze governative, e qui si rischia il ridicolo oltre soglia, perché si tratta di raccontare di un governo che dopo poco più di un mese è già alle notti dei lunghi coltelli, e di un Giuseppi Bis-Conte che è già agli ultimatum: o con me o fuori. Il secondo governo del professore ha molti più problemi del primo. E soprattutto il professore non ne ha un terzo a cui cominciare a lavorare a tradimento.
Per la giornata dell’Orgoglio Italiano – quella in cui il centrodestra si prende San Giovanni, la storica piazza in cui da Luciano Lama a Enrico Berlinguer la sinistra riuniva i suoi militanti e adesso il 1° maggio monta il palco dei suoi concerti a senso unico -, quaranta secondi o poco più. Ma del resto, i giornalisti di Repubblica e della RAI hanno smesso da tempo di considerarsi e poter essere considerati tali. Le veline impongono una verità che non è quella che gli occhi e le orecchie raccontano. Quella che ormai account di social network e stampa digitale indipendente sono in grado di riaffermare poco dopo che è andata in scena, smascherando le fiction di regime.
La verità, cara Repubblica, è che i romani de Roma si fregano le mani, non soltanto perché si avvicina il giorno in cui si libereranno di quel monte di spazzatura in tutti i sensi che è l’Amministrazione Raggi e della banda di Giuseppe e i suoi fratelli, ma anche perché altro che negozi chiusi, con la marea di gente confluita nella Capitale per rispondere alla chiamata di Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi ci faranno affari d’oro.
Altro che incidenti. A San Giovanni la folla più tranquilla e insieme allegramente incazzata che si ricordi – e siccome chi scrive ha una certa età se ne ricorda diverse, di tutti i colori – si stende a perdita d’occhio fino nelle strade e piazzette vicine. Impressionante. I dati, ufficiali e non, parlano di 200.000 presenti, ma non sono i numeri che contano. Oggi conta davvero il colpo d’occhio. Da una parte i palazzi presidiati dalle forze dell’ordine (e peraltro deserti come ogni buon sabato romano impone), dall’altra la gente comune che riempie la Capitale con le sue bandiere ed i suoi sorrisi da italiani in gita, ma che sa bene da qui, da San Giovanni dove vuole andare: a riprendersi ciò che è suo, il governo di questo paese.
Parlano sul palco a turno Giorgia Meloni, comiziante di razza in attesa di diventare leader di molto di più del suo partito comunque in crescita, forse addirittura – volesse quel Dio che lei invoca assieme alla patria ed alla famiglia – la prima donna a capo di un esecutivo italiano; Silvio Berlusconi che alla fine si è ricordato chi è, come dicono a Roma, e si atteggia giustamente a padre nobile di tutto ciò che sta avendo luogo in questa Piazza; e Matteo Salvini, che ogni giorno di più sembra aver imparato da errori che non ha commesso e soprattutto che non manda fuori posto una parola, una frase. Perfino le virgole e le pause nel suo discorso sembrano destinate a portargli altri voti. Ne ha per tutti e non dimentica nessuno, a cominciare dagli alleati che finalmente riunisce di nuovo tutti assieme sul palco di San Giovanni, proprio ora che siamo alla vigilia della prima delle tornate elettorali decisive: quelle da cui la sinistra asserragliata nelle Leopolde e nei Palazzi non può più scappare.
Nella metro che riporta verso Termini – viaggio che al terzo anno di gestione Raggi presenta incerti e difficoltà da videogame – i manifestanti cantano Fratelli d’Italia. In piazza, hanno tributato a Beppe Grillo il suo primo Vaffa Day di ritorno. Da qualche parte, uno spettinatissimo Giuseppi si indigna per le parole inaccettabili di quello che una volta è stato il suo Ministro dell’Interno. La sensazione è che ormai debba rammaricarsi soltanto della fretta con cui si è messo in aspettativa, seguendo le sirene grilline. Tanto più che il suo ultimatum il PD non l’ha preso niente bene. Attento, professore, è un partito strano il PD: sono pochi, sempre meno. Ma sono sempre più infidi e – se ti mordono – letali, più che il tempo passa. A confronto a questi di adesso, D’Alema era un compagnone.
Prossima fermata, Perugia. L’Italia, forse, di orgoglio ne ha ancora da vendere.
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