La storia è maestra di vita, diceva Cicerone in un epoca in cui di storia alle spalle l’uomo ne aveva assai meno di adesso, e tuttavia sufficiente ad insegnare qualcosa – con i suoi corsi e ricorsi – a chi si fosse presa la briga di studiarla.
Abbiamo rinnegato da tempo i nostri maestri, buoni o cattivi che fossero. Compresa appunto la storia, che è diventata materia specialistica e per di più insegnata malamente, attraverso i filtri spessi dell’ideologia e di un analfabetismo di ritorno che si accoppiano in modo diabolico e micidiale.
Era un 7 dicembre di circa 80 anni fa, quando la storia del mondo cambiò per sempre. Era un mondo avviluppato dalle fiamme della guerra per una buona metà della propria estensione geografica. Mancava, a dare pieno significato all’aggettivo mondiale per quella guerra, giusto il continente americano. I caccia giapponesi che decollarono all’alba di quel 7 dicembre, i Mitsubishi A6M divenuti leggendari con il soprannome Zero, per attaccare la flotta statunitense alla fonda nella rada di Pearl Harbor nelle isole Hawaii si incaricarono nel modo più clamoroso e sanguinoso possibile di ovviare a quella lacuna. Dopo l’Operazione Barbarossa che vide Hitler rompere il patto con Stalin, l’attacco a Pearl Harbor trasformò la guerra anglo-tedesca nella Seconda Guerra Mondiale.
Una cosa era sembrata chiara, durante quei 1940 e 1941 in cui gli americani si erano limitati a sostenere gli inglesi nella battaglia d’Inghilterra. Al punto in cui le cose erano arrivate, la guerra avrebbe finito per coinvolgere anche loro. Lo sapevano perfettamente il presidente Franklin Delano Roosevelt e tutti gli uomini della sua amministrazione. Era scritto non solo nel manifest destiny, il corollario alla Dottrina Monroe che spingeva gli Usa verso un ruolo ineluttabile di superpotenza mondiale, esportatrice di quei valori di libertà e democrazia contro cui si erano scatenate le potenze dell’Asse. Era scritto appunto nella logica stessa della guerra in corso, esplosa per motivi ideologici ed economici e proseguita per ragioni di sopravvivenza che spingevano gli Stati Uniti al fianco della Gran Bretagna e dell’Unione Sovietica.
Ciò era chiaro per il governo, per il popolo americano il discorso era diverso. Appena messa fuori la testa dalla devastante Grande Depressione, nessuno aveva voglia di abbandonare l’isolazionismo, la politica tradizionale che da più di un secolo portava l’americano medio a disinteressarsi totalmente del resto del mondo. Gli Zero di Yamamoto, decollati all’alba del 7 dicembre 1941 dalle portaerei giapponesi secondo un piano elaborato da settimane (fu proprio l’impresa dei caccia britannici a Taranto a dare al Sol Levante l’idea dell’attacco a tradimento a Pearl Harbor), costrinsero appunto l’americano medio a dire addio alla Dottrina Monroe, ai suoi corollari ed all’illusione che l’orizzonte degli Usa fosse limitato dalle spiagge del Pacifico e dell’Atlantico dove terminava il continente americano.
Day of Infamy, lo chiamò il presidente Roosevelt per chiamare a raccolta lo stordito popolo a cui nel giro di poche ore era venuta a mancare buona parte della Flotta del Pacifico. Ma non, come aveva sperato lo Stato Maggiore Imperiale giapponese (tiepidamente, a quanto pare, a cominciare dallo stesso ammiraglio Yamamoto), la volontà di combattere. James Monroe e la sua America agli americani furono dimenticati non appena la prima bomba lanciata da uno Zero colpì la prima corazzata americana a Pearl Harbor.
Quando l’ambasciatore giapponese consegnò (volutamente in ritardo) la dichiarazione di guerra al governo americano, la guerra era già nell’animo di ogni cittadino statunitense. Il destino giapponese era stato stabilito nei primi anni Trenta, quando il vuoto di potere russo e cinese aveva invogliato l’Impero del Sol Levante a mangiarsi l’Asia. Il destino americano fu stabilito allora, essendo gli USA l’unica potenza rimasta in Asia a contrastare le ambizioni nipponiche. A ben guardare, già agli inizi di un secolo che era destinato ad essere battezzato come il secolo americano, un altro Presidente Roosevelt, Theodore, aveva stabilito il corollario alla Dottrina Monroe secondo cui la difesa del Continente portava inevitabilmente gli Usa a scontrarsi con il resto del mondo, in un’epoca in cui le grandi potenze erano ancora potenze coloniali. Toccò a suo cugino Franklin Delano, più di trenta anni dopo, arrivare allo scontro definitivo. E vincerlo.
La storia che fu scritta nei quattro anni successivi a Pearl Harbor, e che lasciò il mondo nelle mani della superpotenza americana contrastata poi da quella sovietica ex alleata durante la Guerra Fredda, come ogni storia maestra di vita è stata dimenticata da tempo. Al suo posto, un fiorire di leggende alimentate da ideologia e ignoranza. A cominciare da quella secondo cui gli americani non si sarebbero fatti sorprendere dal tradimento giapponese, ma lo avrebbero addirittura facilitato, se non incoraggiato, se non addirittura provocato e guidato. Facendosi attaccare appunto deliberatamente a Pearl Harbor per vincere le resistenze interne alla popolazione e gettarsi nel conflitto mondiale.
La leggenda nera dell’auto-attentato (alimentata dall’antiamericanismo di matrice fascista e comunista mai sopitosi e anzi divampato nel dopoguerra con lo scontro tra i due Blocchi) ha sostituito qualsiasi verità storica. Ed è grassa se un film ad effetti speciali ma tutto sommato abbastanza veritiero ed accurato come quello di Michael Bay del 2001 ha istillato qualche fotogramma nella memoria collettiva delle ultime generazioni. A cui nessuno insegna più niente, lasciando il campo libero alle bufale complottistiche che infestano i social network e ciò che rimane di certi circoli politici.
Gli americani che nel 1941 si bombardarono alle Hawaii sono gli stessi che si tirarono giù le Torri Gemelle quasi 70 anni dopo, si dice in questi circoli. Sono gli stessi che si creano i propri nemici ad arte, giusto per il piacere di mandare i propri figli a farsi ammazzare in guerra (perché sono loro che mandano i propri figli a morire nelle nostre guerre tutt’oggi, non noi europei che invece siamo così saggi, avveduti, furbi, seri, lungimiranti, animati da buoni sentimenti, e chi più ne ha più ne metta). Sono il Grande Satana di cui parlava Khomeini, uno che di mandare i propri figli a morire se ne intendeva. Sono quelli che hanno anche stretto alleanza con gli Alieni stabilitisi nella base sul lato oscuro della Luna, e che hanno affidato alla sapiente regia cinematografica di Stanley Kubrick la ripresa del finto sbarco sulla stessa Luna, su cui in realtà non sono mai andati. Perché il complottismo può permettersi di essere incoerente perfino con se stesso.
Ma anche il complottismo un limite ce l’ha: la stessa mancanza di intelligenza e l’ignoranza che lo alimentano. Gli Usa costituirono la famosa e famigerata CIA soltanto nel 1943, nella propria ambasciata a Grosvenor Square a Londra sotto la supervisione e gli ammaestramenti del MI6 inglese. Fino a quel momento il suo servizio segreto era stato costituito da mestieranti, come quelli che si fecero sorprendere dall’attacco giapponese a Pearl Harbor, perché ignoravano – nel senso che non erano in grado di interpretare – i segnali premonitori, fossero in codice o meno.
Settantasette anni dopo la CIA – nonostante il vittorioso tirocinio della Guerra Fredda – non può peraltro dire di essere diventata molto più abile di quei suoi pionieristici precursori, se è vero che i segnali lanciati da Al Qaeda nell’estate 2001 sono stati ignorati più o meno come quelli prvenienti dal Giappone nell’estate e dell’autunno 1941. Era una domenica quel 7 dicembre, la flotta americana era in stato di allerta moderato. Gli Zero non trovarono resistenza, fu una strage. Come lo sarebbe stata quella delle Twin Towers.
Chi dice che fu il governo Usa a rivolgere la mano contro il proprio popolo allora come in seguito non conosce la storia. Che come tutte le maestre di vita è molto meno affascinante della teoria dei complotti. Resta una certezza, il secolo americano cominciò il 7 dicembre 1941, per andare in crisi (almeno di certezze) l’11 settembre 2001. Un secolo breve, l’avrebbe definito Eric Hobsbawm. Dopo di esso il mondo sta cercando, in modo assai caotico per non dire rovinoso, un’alternativa. Se essa sia realmente possibile – oltre che vantaggiosa per il genere umano – lo dirà la Historia Magister Vitae alle generazioni future che avranno voglia di studiarla, o di ricordarla.
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