Li chiamano artisti concettuali. Quando non sanno in che altro modo spiegare il mancato successo di pubblico, a fronte della benedizione ricevuta lautamente dagli addetti ai lavori. Troppo cerebrali, poco popolari, nel senso buono del termine.
Alberto Fortis è stato uno di questi, una promessa mancata tra i cantautori italiani, nel periodo in cui forse ne sfornavamo troppi, e per emergere bisognava avere davvero una marcia in più. Erano gli anni di Rino Gaetano, che bucava l’aere sulle radio libere come pochi altri, con dei testi ed una verve che forse nessun altro ha più avuto dopo di lui.
Anche Fortis li aveva i testi, e trasgressivi, tanto che la Rai si rifiutò sempre di ospitarlo, nei suoi anni migliori. La verve invece gli mancava, e pensare che aveva esordito come Enzo Jannacci, studiando medicina la mattina e pianoforte la sera.
Come Jannacci, aveva avuto successo partendo da Milano (dopo aver fallito a Roma, che i concettuali non li ha mai amati, et pour cause), ma a differenza del cardiologo prestato al cabaret, lì si era fermato. Nel 1981 il suo terzo album, La grande grotta, il più venduto, era stato anche il suo canto del cigno.
Non aveva sfondato più di tanto, e del resto se nel tuo paradigma vuoi mettere troppe cose ed eterogenee, da Mara Maionchi alla Premiata Forneria Marconi, o sei un gran gourmet o è meglio che alla fine tu emigri altrove, come fece Fortis a metà anni ottanta, direzione Stati Uniti.
Non prima però di averci lasciato questa gradevole e abbastanza iconoclasta Marylin, rivisitazione del mito della più grande attrice dello star system americano e del più grande presidente della storia U.S.A. del dopoguerra. Il mito di Norma Jean e quello di Camelot. Gradevole, orecchiabile, nulla più.
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