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Portico d’Ottavia, 16 ottobre 1943

Theodor Dannecker era considerato tra le SS un’autorità in fatto di soluzione finale della questione ebraica. Si era fatto le ossa nel Ghetto di Varsavia, poi nella Francia occupata come Judenreferat della Gestapo, capo della sezione incaricata del rintracciamento e dello sterminio degli ebrei secondo le direttive messe a punto da Adolf Eichmann su incarico di Heinrich Himmler.

Nel settembre 1943, l’Italia divenne un paese nemico per la Germania nazista. I militari italiani non sapevano dell’armistizio firmato a tradimento da Badoglio e della fuga del re. Quelli tedeschi sì, e si impadronirono facilmente della penisola almeno fino alla linea Gustav, Roma compresa. Resistettero solo alcuni reparti, come i Granatieri a Porta San Paolo ed i Carabinieri che avevano giurato fedeltà al re, che se la fosse meritata o meno, e che venivano visti dalla Wehrmacht come un potenziale pericolo di cui prima o dopo occuparsi neutralizzandoli.

Portico d'Ottavia, l'accesso al Ghetto ebraico di Roma

Portico d’Ottavia, l’accesso al Ghetto ebraico di Roma

Ma il problema principale per Berlino, oltre a quello di dare una lezione all’ex alleato fedifrago, era quello degli ebrei italiani. A Roma vivevano raccolti in un Ghetto situato nel Rione Sant’Angelo tra il Portico d’Ottavia ed il Tevere. Erano lì dal Cinquecento, quando Papa Paolo IV ne aveva ordinato la reclusione in un quartiere a se stante, come avveniva in tutte le città dell’Europa cristiana. Ma i romani li consideravano ormai parte di loro, com’era peraltro fin da quando i primi giudei avevano seguito l’apostolo Pietro nella capitale dell’Impero da convertire al cristianesimo.

Sembrava un compito facile per il professionista dei rastrellamenti Dannecker, ma in realtà non lo era affatto. I romani cristiani aiutavano i Romani ebrei, li nascondevano, li proteggevano. Nelle chiese di Roma il Vaticano di Pio XII ne nascondeva più di 4.000, che si aggiungevano agli 800.000 nascosti in tutta l’Europa che giaceva sotto il tallone di ferro di Hitler.

GhettoRoma191016-001Le autorità tedesche in Italia, comandate dal feldmaresciallo Kesselring, erano alle prese con gli Alleati che cercavano di risalire la penisola, e con una popolazione sulla cui acquiescenza non era lecito scommettere a priori, come insegnavano le Quattro Giornate di Napoli. Il comandante della piazza di Roma, Herbert Kappler, era personalmente scettico sull’opportunità e sulla fattibilità dell’operazione, considerata inoltre l’inaffidabilità delle forze di polizia italiane. Tentò di sfruttare la situazione imponendo alla comunità ebraica capitolina il famoso riscatto a peso d’oro, cinquanta chili che furono raccolti anche con l’aiuto di cristiani ed ecclesiastici e che furono consegnati a Kappler il 28 settembre 1943.

Berlino incassò l’oro volentieri, ma fece subito sapere che Roma doveva procedere lo stesso con la soluzione finale. Himmler ne incaricò Dannecker, che non lo deluse. Grazie al censimento delle comunità ebraiche ordinato da Mussolini qualche anno prima, le SS sapevano dove andare a colpire. Sapevano anche quello che sanno le polizie di tutto il mondo: che l’ora migliore per colpire è quella dell’alba, quando le vittime sono ancora stordite dal sonno, o dalla mancanza dello stesso. Sapevano infine che il giorno migliore era il Sabbath, quando le famiglie ebree si riunivano.

Theodor Dannecker

Theodor Dannecker

Nel rastrellamento tedesco che scattò all’alba del 16 ottobre 1943 rimasero coinvolti 2.091 ebrei, subito avviati al centro di raccolta del Collegio Militare in Via della Lungara, e di lì avviati alla stazione Tiburtina. Fermata successiva: Auschwitz, dove il comandante Rudolf Hoss era stato preavvisato di preparare loro il trattamento speciale.

A nulla valsero le proteste formali da parte del Vaticano. Papa Pio XII non le spinse oltre misura per non scatenare una reazione nazista ancora più feroce, con tanto di caccia all’uomo in tutta Roma e compromissione dei nascondigli degli altri ebrei. Gli Alleati sapevano cosa stava succedendo a Roma e nelle altre zone di rastrellamento, ma agire al riguardo avrebbe significato far capire ai tedeschi che erano in grado di decifrare i loro messaggi criptati tramite Enigma. Gli ebrei del ghetto furono dunque sacrificati alle necessità della guerra, ed il treno piombato si avviò indisturbato verso Auschwitz, da cui ne sarebbero tornati vivi soltanto in 16. 15 uomini, una donna, nessun bambino.

L’ultimo dei sopravvissuti del rastrellamento, Lello Di Segni, si è spento due anni fa, poco dopo l’anniversario del giorno in cui vide il Ghetto sparire nel nulla.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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