PRATO – Dicono che tutto questo accesso all’informazione sia stato un toccasana per la società. La gente conosce, la gente sa. Eppure ci sarebbero tante cose da indagare, che la gente, per pigrizia, neppure è in grado di pensare. È emblematico come in una città così grande, la terza del centro Italia, sia in grado di passare quasi tutto sottotraccia.
Notate grande interesse nel capire come si sia polverizzato un enorme distretto produttivo? Sentite trepidazione nello scoprire come e dove sparisce il flusso di denaro mastodontico che da Prato si riversa all’estero? Avvertite preoccupazioni per l’avvenire delle nuove generazioni di una città asfittica che sembra tanto inadatta a competere con le sfide del mondo? E dei soldi spariti col Creaf? Delle favolose cooperative buone sia per far accoglienza che per accudire gli anziani? Del nodo del soccorso, dell’ospedale e dell’aeroporto?
Una grande realtà inconsapevole del suo ruolo non può suscitare compassione, ma solo rabbia. Nella città di Prato siamo stati abituati a vedere di tutto, ma ultimamente non c’è stato tanto interesse come per la storia dell’infermiera ed insegnante privata di inglese che è rimasta incinta del ragazzino a cui faceva ripetizioni d’inglese.
Non bisogna abituarsi al becerume imperante, alle chiacchiere da bar. Sulla storia del presunto abuso sessuale si leggono frotte di commenti sia delle testate sia della gente comune sui social network. Pare che la donna mentre faceva ripetizioni ad un ragazzino, all’epoca tredicenne, sia rimasta incinta di lui e che adesso sia madre di un bambino di 7 mesi.
Su questa presunta violenza sessuale la gente, quella brava, quella per bene, ha riversato tutte le sue frustrazioni: è salita in cattedra e, munita di guanti e pinzette, sta rigirando le mutande di questa donna per capire indagare i risvolti della vicenda. Prima c’erano i sagrati delle chiese, dove le comari potevano sputare le loro bile sulle vite degli altri, ma in quel caso poteva esserci la speranza di un prete che le invitasse a tornarsene a casa loro. Oggi, invece, in queste piazze mediatiche non vi è alcuna autorità che possa disperdere il pusillanime chiacchiericcio se non l’avvento di una nuova notizia.
Sembra che questa folla non sia mai sazia di risvolti e di particolari. Fermiamoci a pensare che c’è una donna, che in ogni caso dovrà crescere un figlio di sette mesi, la cui esistenza ogni giorno le ricorderà tutto il casino fatto. Rammentiamoci che c’è un ragazzo ormai quindicenne che, se dai coetanei è accolto come il campione, sta intimamente vivendo la tragedia di essere diventato troppo presto uomo e padre. Poi ci sono due famiglie, quella del ragazzo e quella dell’infermiera, che ha un marito ed un figlio.
Guardiamoci attorno tra le stanza di casa e pensiamo a quanto silenzio pretenderemmo per noi e per la nostra famiglia, se ciò fosse accaduto tra quelle mura. Le cronache riportano che, il marito della donna accusata, l’abbia accompagnata insieme agli avvocati nei colloqui con le magistratura inquirente.
Molti filosofi della tastiera si sono spesi nel dileggiare il comportamento di quest’uomo, esordendo con frasi dei tipo “Come può ancora starle accanto?”. Invece tanto insegna il marito su come possa essere complicata la vita e che prima di distruggere tutto ci sia sempre un buon motivo per rimboccarsi le maniche, in questo caso non fosse altro per il figlio che hanno insieme.
Dispiace che un’intera città, in primis la stampa, si sia dovuta esercitare coralmente nell’analisi delle mutante di un’infermiera. Uno spettacolo degno di un paesone, non di una realtà capace di farsi spazio nel mondo.
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