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Prospero Gallinari, i misteri d’Italia

Prospero Gallinari negli ultimi anni di vita

«Eravamo in guerra, come quei poveri ragazzi mandati in Vietnam. Il contesto nazionale e internazionale era questo. Tutto è partito dal movimento operaio. Alle nostre manifestazioni per una migliore condizione sociale, contro la disoccupazione, lo Stato ha risposto con le azioni di polizia, con le cariche. Le forze reazionarie hanno risposto con la strage di Piazza Fontana. A quel punto, non potevamo fare altro, a nostra volta, che rispondere con le armi. Una vera e propria dichiarazione di guerra».

Raccontava così Prospero Gallinari la storia sua e di una intera generazione che aveva visto trasformarsi gli anni più verdi, quelli che dovrebbero essere i più spensierati, in Anni di Piombo. Quando morì, il 14 gennaio 2013, stroncato dall’ultimo e più grave di una serie di attacchi di cuore mentre usciva dal garage dell’abitazione dove da qualche anno scontava il resto della sua pena (trasformata da ergastolo in arresti domiciliari per motivi di salute) l’ex leader delle Brigate Rosse, l’irriducibile ex-operaio passato alla lotta armata che era arrivato a diventare il capo militare della Stella a Cinque Punte, non si era ancora pentito. Né moralmente, né giuridicamente.

Aveva 62 anni, 36 dei quali li aveva trascorsi tra carcere e arresti domiciliari, dai quali negli ultimi anni aveva il permesso di uscire per recarsi al lavoro nella ditta che l’aveva assunto come autista a Reggio Emilia, dove abitava attualmente. Era nato nel 1951 proprio a Reggio Emilia, da famiglia contadina e di idee comuniste, in una terra dove era rimasta viva più che altrove la memoria della lotta partigiana e dove il vento della ribellione alla fine degli anni sessanta soffiava inevitabilmente più forte. Iscritto giovanissimo alla F.G.C.I., il giovane operaio Gallinari era uscito presto dal Partito Comunista Italiano, ritenendo come tanti giovani militanti di allora insoddisfacente e insufficiente la linea legalitaria adottata dai dirigenti di allora.

Proprio in provincia della sua città, a Pecorile, nel 1970, si era costituita una formazione politica estremista con ambizioni paramilitari destinata presto a diventare la più famosa, o famigerata, di tutte: le Brigate Rosse. Prospero Gallinari era stato tra i fondatori insieme a Renato Curcio, Alberto Franceschini, Roberto Ognibene, Mario Moretti, Adriana Faranda. Dopo un breve periodo di dissidenza, era rientrato nel gruppo ormai consacratosi al terrorismo puro, sotto la direzione di Moretti che aveva rilevato i leader più politici Curcio e Franceschini nel frattempo arrestati, e giusto in tempo per partecipare al rapimento del giudice Mario Sossi, uno dei primi sequestri spettacolari operati dall’organizzazione contro esponenti dello Stato. Gallinari, che nel sequestro e in altre operazioni di commando aveva già messo in luce le sue qualità di capo militare (in sintonia con la leadership politica di Moretti e Faranda), venne arrestato una prima volta a fine 1974.

Gallinari legge il volantino al processo di Torino

Gallinari legge il volantino al processo di Torino

Nel 1976, al processo di Torino dove si giudicavano i capi storici B.R., Gallinari si mise in mostra leggendo il volantino con cui si rivendicava l’omicidio del procuratore di Genova Francesco Coco ad opera di una colonna dell’organizzazione rimasta in clandestinità. Nel 1977 riuscì ad evadere dal carcere di Treviso e da quel momento di lui si persero le tracce. Fino al 15 marzo 1978, quando riapparve agli onori della cronaca nel modo più drammatico.

Gallinari fu infatti il leader del commando che in Via Fani rapì il segretario della Democrazia Cristiana Aldo Moro (mentre si sta recando in Parlamento per ricevere il voto di fiducia al suo governo che per la prima volta avrebbe dovuto avere l’appoggio del Partito Comunista, il Compromesso Storico), e ne massacrò la scorta. Da quel momento, e per i fatidici 55 giorni, Gallinari insieme a Moretti, Anna Laura Braghetti (che poi avrebbe sposato in carcere) e – pare – Germano Maccari, fu uno dei carcerieri dello statista, e probabilmente quello che lo giustiziò il 9 maggio, nel bagagliaio della R4 poi ritrovata in Via Caetani, al termine dello psicodramma collettivo che cambiò per sempre la storia d’Italia.

Catturato nel 1979 dalla polizia al termine di una sparatoria a Roma nella quale venne gravemente ferito alla testa, riuscì a sopravvivere e ad affrontare il processo che nel 1983 lo condannò all’ergastolo insieme ai suoi compagni. Nello stesso anno subì il primo della serie di infarti che si sarebbe conclusa quel giorno di gennaio di cinque anni fa.

Gallinari e Moretti al processo Moro

Gallinari e Moretti al processo Moro

Prospero Gallinari era sempre stato uno degli irriducibili delle Brigate Rosse, uno di quelli che non si è mai pentito e non è mai venuto a patti con lo stato, confessando alcunché di tutto ciò di cui era a conoscenza relativamente al periodo della lotta armata. Nel 1988 decise di unirsi allo storico documento con cui Curcio, Moretti ed altri riconoscevano che «la lotta armata è finita e lo Stato ha vinto», ma senza alcuna concessione al pentimento né desiderio di fare chiarezza circa le responsabilità sue e dei suoi compagni negli eventi drammatici degli Anni di Piombo. Pochi anni dopo, Mario Moretti lo scagionò circa l’esecuzione materiale del delitto Moro assumendosene le responsabilità, ma pare che quel gesto fosse dettato dal tentativo di favorire l’uscita dell’amico e compagno dal carcere, per motivi di salute. Uscita che fu poi accordata nel 1996 con la sospensione della pena e la concessione degli arresti domiciliari.

Aldo Moro nella "prigione del popolo"

Aldo Moro nella “prigione del popolo”

Con la sua scomparsa, si riducssero ulteriormente le possibilità per la giustizia italiana di far luce sul periodo più controverso della storia d’Italia contemporanea, ed in particolare sul sequestro e l’uccisione di Aldo Moro. Era veramente lui l’Ing. Altobelli che aveva preso in affitto l’appartamento di Via Montalcini in cui lo statista fu tenuto prigioniero? C’era veramente qualcun altro la mattina del 15 marzo 1978 in Via Fani insieme agli uomini delle Brigate Rosse capitanati da Gallinari? Chi ha bruciato o fatto sparire le carte di Moro conservate nel covo, e che cosa contenevano esattamente? E infine, la domanda più importante di tutte, che cosa sono state esattamente le Brigate Rosse? L’organizzazione terroristica che tenne in scacco lo Stato italiano per più di dieci anni nel tentativo idealistico e ideologico di riprendere e portare a compimento una lotta partigiana che si riteneva fosse stata interrotta troppo presto? O una pedina più o meno consapevole su una scacchiera e in un gioco in cui la posta era molto, ma molto più alta, attraversando addirittura i destini stessi dell’Occidente? Chi armò veramente la mano che sparò ad Aldo Moro, di Gallinari o di chiunque altro fosse?

Queste sono le domande a cui adesso si trova a rispondere Prospero Gallinari, davanti al Tribunale davanti a cui è stato convocato il 14 gennaio 2013, alla fine di una delle tante vite spezzate o distorte attraverso quei terribili e incomprensibili anni 70. Chissà se in quei 62 anni in cui ha vissuto (molti di più di quelli che ha concesso a tante sue vittime), ha avuto mai un attimo non si dice di pentimento, ma almeno di dubbio. Su quei segreti di stato che si è portato con sé per sempre.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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