Era stato per secoli il gioco dei gesti bianchi. Nato come passatempo degli aristocratici, il Tennis era arrivato attraverso i secoli a diventare, negli anni sessanta e settanta del ventesimo secolo, uno sport di massa, pur mantenendo le regole e gli atteggiamenti codificati almeno cento anni prima all’All England Lawn Tennis and Croquet Club di Wimbledon.
I gesti bianchi, appunto, secondo la definizione di Gianni Clerici, perché ci si vestiva rigorosamente di bianco e ci si comportava come se fossimo tutti rampolli dell’aristocrazia britannica, dovunque fossimo a giocare, anche sui più scalcinati campi di periferia. Fino a loro due.
Bjorn Borg era nato a Sodertaljie, un sobborgo di Stoccolma, il 6 giugno 1956. Fin dalla sua prima apparizione come junior nei primi anni settanta, fu subito chiaro che dopo di lui il tennis non sarebbe stato più lo stesso, per sempre stravolto dal suo stile che molti hanno cercato di imitare e che nessuno ha eguagliato. Apparentemente dotato di un tennis che non aveva altro pregio che la mostruosa regolarità da fondo campo, lo svedese divenne ben presto ingiocabile per chiunque grazie al suo carattere di ghiaccio, che gli consentiva di non perdere mai calma e concentrazione e di riuscire a rimandare sempre la palla, qualsiasi palla, una volta di più dell’avversario.
Ice-Borg, come fu soprannominato, a metà anni settanta era già imbattibile su terra battuta e cemento. Con pochissime eccezioni, tra cui il nostro Adriano Panatta, l’unico ad averlo mai sconfitto al Roland Garros di Parigi, e Jimmy Connors, l’unico ad impedirgli il trionfo agli U.S. Open. Gli mancava solo l’erba di Wimbledon, e per il suo tipo di gioco tutti erano d’accordo che quello sarebbe rimasto un sogno al di fuori della sua portata. E invece, con una modestia pari al suo orgoglio smisurato, Borg si mise ad imparare i fondamentali del gioco sui grass courts, compreso quel serve and volley così lontano dalle sue abitudini. E finì per mettere in fila tutti anche in Inghilterra. Le sue finali con Jimmy Connors, soprattutto quella del 1977, sorpresero il mondo non meno dei malcapitati avversari. Nel 1980 Borg aveva vinto 4 titoli consecutivi, e sembrava non avere avversari, neanche a Wimbledon.
John Patrick McEnroe era nato a Wiesbaden (dove suo padre prestava servizio nelle forze armate americane di stanza in Germania) il 16 febbraio 1959. Altrettanto precoce di Borg, era il suo estremo opposto. Dotato di un talento puro (il cosiddetto tocco) quale si era visto raramente prima e forse mai più dopo di lui, il ragazzo cresciuto al Queens (il quartiere di New York, non il club esclusivo di Londra) aveva un carattere esplosivo, impossibile, che lo portava a complicare la vita sul campo a se stesso, prima ancora che ai suoi avversari.
Perciò, pur avendo mostrato presto al mondo che come trattava lui la pallina da tennis non ce n’erano, tra un colpo ad effetto e uno sketch da neurodeliri sul campo, aveva raccolto meno vittorie di quanto la sua classe immensa avrebbe meritato, se messa al servizio di una testa meno matta. Nel 1977, l’anno in cui Jimmy Connors in finale a Wimbledon aveva rimontato da 4-0 a 4-4 nel quinto set a Borg, per poi cedergli di schianto 6-4, in semifinale aveva dovuto prima vedersela con un ragazzino di neanche 18 anni, suo connazionale, proveniente dalle qualificazioni, che senza nessun timore reverenziale era arrivato a metterlo in seria difficoltà.
Era cominciata così la storia di McEnroe. E si era impantanata subito nella difficoltà di mantenere fede al pronostico di una grande carriera. Nel 1980, McEnroe era reduce da un paio di annate in cui, a parte la Coppa Davis riportata dopo anni negli USA e la vittoria nel torneo di casa agli U.S. Open, aveva combinato molto meno di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi.
Il torneo di Wimbledon edizione 1980 era stato quasi noioso. Il detentore del titolo, Bjorn Borg aveva avuto un percorso di tutto riposo fino alla finale, lasciando solo un set nella semifinale a Brian Gottfried, giocatore solido ma di scarso talento e tuttavia il più pericoloso avversario affrontato dallo svedese quell’anno. Dopo l’apprensione causatagli nell’edizione 1979 da Roscoe Tanner, battuto solo al termine di cinque set di fuoco, stavolta Borg non vedeva proprio avversari, pregustando già il quinto titolo consecutivo. Dall’altra parte, il suo avversario di sempre, quel Jimmy Connors che l’aveva quasi messo alle corde nel 1977 e che l’aveva poi battuto negli Stati Uniti a Flushing Meadows, aveva tutte le intenzioni di riprovarci, ma prima doveva vedersela con l’ex ragazzo terribile, John McEnroe, nella rivincita della semifinale di tre anni prima. Stavolta vinse l’americano più giovane. La finale sarebbe stata l’inedita Borg-McEnroe. Il pronostico era tutto per lo svedese, in uno stato di forma spaventoso e all’apice della sua carriera.
Il 5 luglio 1980 i giocatori fecero il loro ingresso sul Centre Court per quella che si sperava fosse una bella finale. Nessuno poteva immaginare che sarebbe stata una finale leggendaria. Il match del secolo. McEnroe dimostrò subito di essere venuto felicemente a patti con se stesso, conquistando un primo set incredibile per 6-1 e lasciando di sasso un attonito Borg. Lo svedese, che era stato sotto inizialmente tante volte ma che non aveva mai perso la calma in tutta la sua vita, reagì da par suo prendendosi secondo e terzo set non agevolmente ma con sicurezza: 7-5 6-3. Nel quarto, l’americano riuscì a far partita eguale fino al tie-break, ma lo svedese sembrava sempre avanti, ormai salito in cattedra con il suo gioco fatto di potenza e regolarità che vanificava spesso i lampi di genio scaturiti dalla racchetta del mancino newyorkese. L’epilogo sembrava scritto, anche se un po’ più a fatica di quanto era stato pronosticato. E invece…..
Chiunque abbia visto quel tie-break del quarto set non potrà mai dimenticarlo. Punto a punto, i due contendenti si scambiarono colpi vincenti alternandosi nel vantaggio. Se Borg era ancora il favorito, l’outsider mostrò un coraggio e una classe incommensurabili, finendo per prevalere 18-16, acclamato dal pubblico inglese in delirio, completamente dimentico di qualsiasi aplomb tradizionale. All’inizio del quinto set, non c’erano più favoriti. John McEnroe si era conquistato il suo posto tra i grandi del tennis, e Bjorn Borg ha confessato in seguito di avere avuto per la prima volta nella sua vita paura di perdere. Solo i suoi nervi di ghiaccio gli permisero di restare sempre avanti nel punteggio tenendo il servizio e sfruttando un’unica incertezza del più talentuoso avversario, conquistando un 8-6 finale che gli dette il quinto titolo consecutivo, insieme però alla certezza che non era più imbattibile, che stavolta era andata bene, era riuscito a farcela facendo appello a tutte le sue risorse migliori, ma in futuro con quel ragazzo non avrebbe avuto più vita facile.
John McEnroe ormai aveva acquisito una maggiore consapevolezza di sé. Nell’anno che trascorse fino all’edizione successiva del torneo, rivinse gli U.S. Open e soprattutto riuscì ad essere se stesso (la solita miscela esplosiva pronta a prendere fuoco in un qualunque momento per i motivi più futili) ma nello stesso tempo vincente. I suoi siparietti in stile neuro ormai riuscivano a far perdere la concentrazione solo agli avversari, non più a lui stesso. Non solo, ma anche la gente – soprattutto i compassati inglesi, che al principio lo avevano cordialmente detestato per la sua irriverenza verso le sane abitudini e tradizioni di uno sport in cui perfino il tifo e l’esultanza erano quasi considerati disdicevoli – adesso stava passando dalla sua parte, divertendosi quasi alle sue intemperanze ed accogliendolo come il segno più eclatante e finalmente ben accetto dei tempi nuovi.
La strada per la finale del 1981 apparentemente fu identica a quella dell’anno prima. A ben guardare, invece, le parti si erano rovesciate. Mac, come ormai era soprannominato, si liberò di tutti gli avversari con facilità irrisoria. L’orso svedese, che era reduce dalla sesta vittoria al Roland Garros dove aveva annichilito un altro giovane talento emergente, Ivan Lendl, sembrava stanco, affaticato. Sempre molto forte, ma non più invincibile. Jimmy Connors, che stavolta era dalla parte sua in semifinale, gli andò avanti per due set a zero, 6-0 6-4, prima di subire la rimonta e lasciargli strada per la rivincita attesa da McEnroe. Stavolta, per quella finale, non c’era un vero favorito. Semmai Mac sembrava addirittura più forte dell’anno prima, Bjorn appena un po’ meno.
Fu Borg a portarsi avanti nel primo set, illudendo i suoi tifosi che la serie potesse essere allungata. Il secondo e terzo set seguirono la regola dei servizi, arrivando ai tie-break che furono tutti, ancora una volta, appannaggio di Mac. L’americano mostrava una forza interiore e una sicurezza del tutto nuove, unitamente a quei colpi che strappavano ormai applausi a scena aperta al pubblico british. Nel quarto set, sembrava che si ripetesse la vicenda dei precedenti, ma al decimo gioco qualcosa cedette nella corazza dell’Orso, e Mac gli strappò il brandello di pelliccia decisivo: 6-4.
Era finita un epoca, ne cominciava un’altra. Due finali leggendarie avevano sancito uno dei più avvincenti passaggi di consegne della storia dello sport, oltre che due delle più belle partite di tennis di sempre. Quello che nessuno poteva immaginare, era che il giorno della finale del 1981 finì addirittura la carriera di Bjorn Borg, l’uomo invincibile, che per molti anni aveva costretto tutti a lottare dal secondo posto in giù. La consapevolezza che ormai McEnroe gli si era affiancato e gli stava passando avanti fu devastante per lo svedese, il cui ego smisurato concepiva soltanto la prima indiscussa posizione. Borg non accettò il declino. Si ritirò formalmente al torneo di Montecarlo l’anno seguente, ma Ice-Borg era rientrato per l’ultima volta negli spogliatoi il giorno della finale di Wimbledon 1981, con sotto braccio il piatto che viene consegnato al secondo classificato.
Nessuno poteva immaginare, inoltre, che anche la carriera di colui che l’aveva battuto e superato ne sarebbe rimasta segnata. Nella rincorsa a Borg, John McEnroe aveva trovato la sua ragione di vita, la spinta a realizzare compiutamente se stesso. Una volta uscito di scena il suo grande avversario, la sua Nemesi, John faticò a trovare le motivazioni per riprendere e proseguire la sua carriera, che per tre anni comunque lo vide come numero 1 incontrastato del tennis mondiale. Ogni volta che giocava una finale, o affrontava un avversario di rango, ha raccontato lui stesso, finiva per chiedersi: «ma dov’è Borg? Perché non posso più giocare quelle partite stupende contro di lui?»
Che senso ha, sembrava chiedersi il giovane John Patrick McEnroe? L’epopea era passata, adesso toccava alla cronaca quotidiana, molto poco avvincente per chi disegnava capolavori con la racchetta in mano. Nel 1982 si fece sorprendere da Connors in finale a Wimbledon. Nel 1983 e 1984 schiantò gli avversari con una facilità irrisoria, compreso il solito Connors. Ma gli mancava qualcosa di fondamentale, o meglio qualcuno. E quel qualcuno si chiamava Bjorn Borg.
Nel 1985 John McEnroe ai nastri di partenza di Wimbledon c’era e non c’era. Il fidanzamento con la figlia di Ryan O’Neal, Tatum, in primavera gli aveva dato motivazioni esistenziali che il tennis non gli dava più, almeno da quando non poteva più scrivere pagine di grande storia a modo suo, contro l’unico degno avversario che riconosceva suo pari. Così finì a soli 24 anni la carriera del più straordinario talento che abbia impugnato la racchetta dai tempi di Rod Laver, con buona pace di chi è venuto dopo di lui. A Wimbledon quell’anno vinse Boris Becker, diciassettenne tedesco dal gioco spettacolare che superò il suo record di precocità di qualche mese. Era un altro passaggio di consegne e un’altra epoca che finiva, ma John non era sul campo centrale ad assistervi, né tanto meno a prendervi parte.
La grande storia era finita. La leggenda era appena cominciata.
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