Cinema

Quando il cinema ripete se stesso

The Post, ovvero: quando il cinema insegue se stesso e non riesce a ripetersi, nemmeno a raggiungersi o ad avvicinarsi. Come accade in ogni Arte, certi capolavori dovrebbero rimanere inimitati. Perché sono inimitabili.

Esce un film prodotto e diretto da Steven Spielberg e interpretato da Meryl Streep e Tom Hanks. Mostri sacri della generazione attuale. Sembra strano, irriverente parlare di remake non riuscito, di prova d’autore fallita, di flop storico – artistico.

E tuttavia è così. Il bravissimo regista e gli altrettanto bravi attori escono con le ossa rotte, ridimensionati dal confronto con i mostri sacri di un’altra generazione, la precedente, quella che evidentemente aveva maggiormente nelle corde il cinema inteso come civil action. Anche perché poteva mettere in scena registi come Alan J. Pakula e attori come Robert Redford e Dustin Hoffman.

Spielberg, Streep e Hanks non ce ne vogliano, magari vinceranno qualche premio Oscar o d’altro tipo (ce ne sono talmente tanti, ormai, e non si negano a nessuno, soprattutto se le motivazioni sono politiche). Ma a confronto con i suddetti colleghi di qualche anno fa escono ridimensionati. La loro storia svilita, come una pièce messa in scena frettolosamente, distrattamente, svogliatamente. E del resto, l’intento loro dichiarato era ed é creare un parallelismo tra Richard Nixon e Donald Trump, calcare l’accento su quella che a loro dire sarebbe la nuova minaccia alla libertà in America e nel mondo. E che storia e obbiettività (per non parlare appunto dell’arte cinematografica) vadano pure a farsi benedire.

La storia di The Post è praticamente limitrofa a quella del Watergate, ed i personaggi messi in scena da Spielberg quasi gli stessi del film di Pakula, tratto a suo tempo dalle memorie di Carl Bernstein e Bob Woodward, gli scopritori del più celebre scandalo della storia americana. Che portò alle dimissioni di un presidente, Richard Nixon appunto.

Ma se il film di Pakula, era essenziale, coinvolgente, inesorabile, reso per giunta epico dalla recitazione di due dramatis personae a prescindere come Hoffman e Redford, quello di Spielberg a confronto sembra un compito in classe affrontato svogliatamente, sceneggiato in modo poco comprensibile (per chi non conosce la storia dei Pentagon Papers, che precedette ed aprì la strada al Watergate nel determinare la caduta di Nixon) e recitato malamente.

Sottotono la Streep, troppo sopra le righe Hanks: confrontare per credere il Ben Bradlee interpretato da Jason Robards in All the president’s men, un gigante a cui dobbiamo – nella finzione come soprattutto nella realtà – la salvezza della libertà di stampa e della libertà in generale nel mondo in cui abbiamo vissuto a partire dagli anni della guerra del Vietnam. Il direttore del Post reso da Hanks è invece poco più di un maneggione sguaiato del giornalismo USA di secondo piano, arrivato dov’é grazie all’amicizia del compianto presidente Kennedy, all’appartenenza al cerchio magico della Camelot di Jack e Jackie. Così come la Katharine Graham resa da Meryl Streep sembra quasi una donnetta della high society di Washington arrivata a possedere un giornale in quanto vedova dell’uomo che suo padre le aveva dato in sposo e che aveva individuato come suo vero erede, e che soltanto sotto pressione trova, quasi balbettante, il coraggio di diventare suo malgrado la donna che abbatte il tiranno, contro tutto e contro tutti.

Peccato per l’occasione persa, soprattutto nello scegliersi un altro soggetto più confacente, più nelle corde. E nel lasciar stare un capolavoro che al pari di un quadro di Picasso o di un brano dei Rolling Stones chiedeva solo di essere ammirato, non imitato.

Ma del resto, questa è l’epoca dei remake, malattia senile della cinematografia. Abbiamo già assistito, o per meglio dire, sopportato l’Assassinio sull’Orient Express ridotto dal pur bravo Kenneth Branagh ad un filmetto d’azione qualsiasi. Dimenticate le atmosfere magistralmente ricreate da Sidney Lumet nella trasposizione scenica di uno dei più famosi e fortunati romanzi gialli di Agatha Christie, con il cinema che per una volta è addirittura più che all’altezza della pagina scritta che lo ha ispirato. Con il già maturo Sean Connery che alla guida di una pattuglia di attori indimenticabili rende ogni istante trascorso a bordo del treno che da Istanbul va a Calais via Trieste un passo nel grande cinema a servizio della grande letteratura.

E non abbiamo ancora finito di rammaricarci per il sequel di Blade Runner, piccolo grande gioiello scaturito dal genio futuribile di Philip K. Dick e restituito visivamente dal genio non meno grande di Ridley Scott. Blade Runner 2049 è un fumettone, un manga giapponese a cui non riesce a dare dignità nemmeno l’ormai anziano Harrison Ford, che pure era stato all’altezza di se stesso nei sequel sia di Indiana Jones che di Star Wars. No, qui lo spirito originario si è perso completamente. Qualcuno considera il regista canadese Denis Villeneuve come uno dei maggiori esponenti della nouvelle vague cinematografica, peccato che non sia stata quella di 2049 l’occasione per dimostrarlo.

Quando il cinema si rivolge su se stesso, dispiace dire che fa quasi sempre soltanto danni. A se stesso ed al nostro immaginario migliore. Attendiamo con preoccupazione – meglio, con terrore – il remake di Casablanca. A meno di non voler considerare tale l’inguardabile Allied Un’ombra nascosta, recente infortunio di Robert Zemeckis e Brad Pitt.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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