Quando Pietro Mennea scese in pista allo Stadio Lenin di Mosca per la finale dei 200 metri, Sara Simeoni aveva già al collo da due giorni la medaglia d’oro del salto in alto femminile. La loro era stata una lunga rincorsa contro i propri limiti e quelli del loro sistema-paese. Allora come ora, l’Italia era una nazione che non investiva nel Corpore Sano dei suoi cittadini, e poco anche nella Mens Sana. Sara e Pietro in compenso ne avevano in abbondanza per conto loro.
In un paese dove, allora come ora, chi faceva atletica la faceva nel deserto, con l’unico sostegno della passione propria e di pochi illuminati maestri, Sara e Pietro avevano già ottenuto tanto. Parafrasando ciò che avrebbe detto quarant’anni dopo un’altra predestinata azzurra, Federica Pellegrini, avevano dato tutta la loro vita allo sport, e dallo sport avevano preso quasi tutto quello che volevano.
Quasi. Mancava solo la medaglia d’oro olimpica. Sara vinse la sua sabato 26 luglio 1980. Quando due giorni dopo Pietro si sistemò ai blocchi di partenza dei 200 metri, lei era in tribuna o forse alla televisione, dove visse – come tutti noi in Italia – il pathos della telecronaca di Paolo Rosi, l’unico insieme a Giampiero Galeazzi a poter scherzare con le coronarie sue e nostre. «Recupera, recupera, recupera, recupera….. ha vinto, ha vintooooo!!!!!»
Il salto di Sara e l’arrivo di Pietro li abbiamo rivisti un milione di volte, ed ogni volta ci sembra che lei stia per toccare l’asticella e che lui venga beffato al fotofinish sul traguardo da Alan Wells, il suo rivale di allora. Ogni volta dobbiamo rassicurarci, quarant’anni dopo, che è andata bene. Hanno vinto loro. Sono nella storia, nella leggenda, e Pietro addirittura nell’Olimpo.
Ci riesce tutt’ora difficile venire a patti con quel sogno diventato realtà nell’estate del 1980 a Mosca. Ci riusciva finora ancora più difficile pensare che un giorno avremmo rivisto tutto ciò, in un’edizione olimpica addirittura più drammatica, epica, in una parola leggendaria.
Da quarant’anni Sara e Pietro si rubano la scena a vicenda, difficile dire quale delle due loro medaglie merita più dell’altra, di ogni altra, di fare da simbolo di una grande Olimpiade italiana, ed anche da simbolo di un’atletica che poi comunque ritornò subito ad essere ciò che era e che è ancora: un sogno che dura un giorno, seguito da tre anni e 364 giorni in cui di te – e degli altri ragazzi che sacrificano la loro adolescenza sulla pista rossa agli ordini impietosi di qualche maestro infreddolito e a volte sconfortato come loro – non si ricorda né si accorge più nessuno.
Quarant’anni dopo, siamo ancora gli stessi, anzi forse siamo peggiorati. I nostri ragazzi ormai fanno quasi tutti sport alla playstation. Di quei pochi che lo fanno in pista, sono sempre meno quelli che riescono ad arrivare in fondo, sotto le luci della ribalta, ed a trarne una qualche gratificazione. Il medagliere italiano intanto è sempre egregio, attorno al decimo posto nel mondo, ma stavolta a Tokyo regge con fatica, gli eroi di cinque anni fa sono invecchiati, i giovani stentano, e spesso scontano quella che per loro si rivela eccessiva pressione.
Poi arriva il giorno in cui il destino sceglie di ripagarci. Il nostro è un paese disgraziato per tanti versi, ma agli Dèi, e non solo quelli di Olympia, per qualche motivo sta molto simpatico. Credevamo che il nostro calcio fosse finito, e invece va a vincere un campionato europeo sbancando il tempio mondiale del football. Credevamo che la nostra atletica fosse alla frutta, senza più investimenti né strutture, bandita anche dalle scuole e con pochissimi talenti emergenti a colmare con la loro classe ed il loro carattere le enormi lacune del sistema-paese.
Poi la sorte ci mette in pista più o meno alla stessa ora, nello stesso stadio, Gianmarco Tamberi e Lamont Marcell Jacobs.
Gianmarco detto Gimbo viene da lontano anche se ha appena compiuto ventinove anni, un’età che nello sport moderno è ancora sinonimo di giovinezza. A Londra nel 2012 di anni ne aveva venti, e si impose all’attenzione qualificandosi per i Giochi con la terza prestazione italiana di sempre, 2,31 metri. A Rio era uno dei favoriti, detentore tra l’altro dei record nazionali indoor e outdoor, ma fu fermato da una distorsione alla caviglia mentre ad uno degli ultimi meeting preolimpici tentava il 2,41.
Per quattro anni (più un quinto di puro stress aggiunto a lui come a tutti dalla pandemia covid) ha atteso di ritrovarsi a quelle benedette Olimpiadi, faccia a faccia con il suo avversario di sempre, il qatariota Mutaz Essa Barshim, sulla pedana che assegna la medaglia d’oro. Il suo momento arriva attorno alle ore 14,00 del giorno 1 agosto 2021. Il duello finale con Barshim si ferma sulla misura di 2,37 per entrambi. Il Comitato di gara prende una decisione storica, e per una volta anche giusta: oro ad entrambi, senza spareggio. Onore al merito ed anche al destino. Mutaz prende la bandiera qatariota, Gianmarco quella tricolore, e ce l’ha ancora sulle spalle quando pochi minuti dopo tra le corsie dedicate alla finale dei cento metri va a prendere posto il suo compagno di Team Italia Lamont Marcell Jacobs.
Marcell viene da ancora più lontano. Da Camp Ederle, presso Vicenza, la base USA in cui i suoi genitori si sono conosciuti. Da El Paso, Texas, dov’é nato e dove la madre ha deciso di non rimanere a vivere, mentre il padre (che si chiama Lamont come lui e che per molti anni resterà per lui un’entità distante e scostante) veniva trasferito in Corea del Sud. Da Desenzano del Garda, dove ha vissuto fin da subito dopo la nascita. Fino al 2015 ha avuto il doppio passaporto, dopodiché ha optato per quello italiano. All’inizio sembra un piccolo Carl Lewis, alternando la corsa veloce al salto in lungo. E’ grazie al record italiano in quest’ultima disciplina, 8,48, che nell’estate 2016 potrebbe andare ai Giochi Olimpici di Rio, ma una lesione al quadricipite femorale sinistro lo tiene a casa.
L’abbraccio con Gianmarco è solo ritardato. A Tokyo Marcell ci va come sprinter, dopo tre anni di progressione costante che ne hanno fatto il secondo atleta italiano di sempre, dopo Filippo Tortu, a scendere sotto i 10 secondi nei cento metri.
Nelle semifinali Marcell corre risparmiandosi vistosamente, alimentando speranze negli addetti ai lavori e nei tifosi. In finale, una falsa partenza del britannico Zharnel Hughes gli toglie di mezzo uno dei rivali più accreditati, ma anche uno dei punti di riferimento più vicini. Andre De Grasse (Canada) e Su Bingtian (Cina) sono gli altri favoriti. Marcell non li vede mai, la sua progressione è imperiosa come quella di Ben Johnson a Seoul, o quelle di Usain Bolt (ma il paragone in entrambi i casi finisce a questa sensazione). Il suo 9’80 finale è clamoroso, e sa di mezzo record del mondo, anche se il futuro di questa disciplina nell’era successiva al ritiro di Bolt è tutto da decifrare.
Non fa a tempo a realizzare cos’é successo, Marcell, che Gianmarco gli è addosso, stendendo anche sopra di lui la bandiera tricolore che ha ancora sulle spalle. L’abbraccio è assolutamente riservato tra loro due, le stelle folgoranti di un’atletica italiana che risorge improvvisamente nel cielo di Tokyo. Le parole di Marcell invece le sentiamo tutti bene: «Mi ci vorrà almeno una settimana per capire cosa ho fatto!»
Ci vorrà del tempo anche a tutti noi, ragazzi. Non credevamo mai che avremmo rivisto un velocista ed un saltatore italiani rubarsi la scena in uno stadio olimpico. E invece, quarant’anni dopo, è successo di nuovo.
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