Nella foto: la “Marianne che guida gli insorti”, dipinto di Paul Delacroix del 1830. Iconizzata dalla rivoluzione borghese, la nuova Giovanna d’Arco era un mito ereditato dalla Grande Rivoluzione.
Pare che il celebre appello aux armes citoyens, destinato a diventare il refrain della Marsigliese, fu gridato per la prima volta al popolo di Parigi il 12 luglio 1789 da Camille Desmoulins, giornalista e avvocato eletto all’Assemblea Nazionale francese per il Terzo Stato.
Da circa due mesi Parigi era in subbuglio. Il Re Luigi XVI aveva convocato gli Stati Generali il 5 maggio di quell’anno, per la prima volta dal 1614, in ragione della grave crisi economica, sociale e morale in cui versava la Francia. Due secoli di guerre per la supremazia in Europa e nelle Colonie avevano lasciato il segno. Le finanze reali erano esauste, il popolo affamato, la borghesia produttiva strozzata dalle tasse.
Il Re di Francia, ultimo discendente della gloriosa dinastia dei Capeti che risaliva indietro nel tempo di quasi mille anni, all’epoca delle scorrerie dei Vichinghi, aveva governato come i predecessori – dal tempo in cui Alexandre Dumas aveva ambientato i suoi Tre Moschettieri, due secoli prima – basandosi esclusivamente sul diritto divino. Re per grazia di Dio, era la formula di rito, che risaliva al Sacro Romano Impero di Carlo Magno. La volontà della nazione non era mai stata tenuta in considerazione. Almeno fino a quella primavera del 1789.
Venti assai potenti avevano infine cominciato a soffiare da ovest, da oltre Atlantico. Da diversi decenni l’Illuminismo ed i suoi philosophes, Voltaire, Diderot, Montesquieu, Tocqueville, Rousseau, avevano insinuato il dubbio che il governo assoluto non fosse poi il sistema migliore. Prove alla mano erano date dal crescente depauperamento economico delle nazioni e dall’infelicità delle popolazioni sottoposte – e massacrate spesso e volentieri – dagli Stati e dalle Chiese.
I successori del Re Sole pretendevano ancora di affermare in modo più o meno arrogante Lo Stato sono io, ma nessuno ci credeva più. E sempre meno erano quelli disposti a chinare il capo e la coscienza a quella Chiesa che giustificava un simile ordine delle cose come voluto da Dio.
Questo era il clima. Dal dire al fare, il passo fu abbreviato dalla Rivoluzione Americana. L’aiuto fornito da Luigi XVI ai ribelli delle Colonie inglesi del Nordamerica fu determinante per il successo di essa, la nascita degli Stati Uniti d’America, l’avvento di un mondo nuovo. World turned upside down, cantavano beffardi i patrioti americani mentre le Giubbe Rosse di Cornwallis si imbarcavano per l’ultima volta per abbandonare quella che non era più la loro patria. Il mondo è andato sottosopra.
Il colpo inferto alla mortale nemica Inghilterra si ritorse contro la Francia come un boomerang. Le truppe che agli ordini del marchese de Lafayette avevano combattuto a fianco della Milizia Continentale di George Washington riportavano in patria idee nuove, stampate nei libri di Tom Paine, Benjamin Franklin, Thomas Jefferson, che a loro volta avevano rielaborato quelle di Voltaire e soci. Il radicale Paine l’aveva affermato senza mezzi termini, ogni governo che non trova ragione nel consenso e nella soddisfazione popolare non è altro che tirannia. E come tale dev’essere abbattuto.
Convocando gli Stati Generali, Luigi XVI non si era reso conto di aver fatto la prima determinante concessione a quella volontà della nazione che ormai non poteva essere più disconosciuta, ignorata. Aveva creato dunque aspettative, nei salotti e nelle piazze, che ora chiedevano risposte adeguate, insieme al pane. Maria Antonietta, l’austriaca, si era mostrata altrettanto inadeguata del regale marito nel fronteggiare la situazione, invitando beffardamente il popolo affamato a sostituire quel pane che scarseggiava con le famose brioches.
La mattina del 12 luglio, mentre Il Terzo Stato cercava a Versailles il modo di superare l’ostracismo filo-realista degli altri due, Nobiltà e Clero, e scongiurare il precipitare di eventi che sembravano ormai fortemente probabili se non inevitabili, il popolo di Parigi si impossessò dell’Hotel de Ville, il Municipio, dando vita alla prima assemblea autoconvocata e autogestita della storia moderna. Il popolo scopertosi sovrano prese alcune decisioni fondamentali. La prima fu quella di rispondere all’accerchiamento della capitale da parte delle truppe regie (peraltro assai svogliate, in quanto solidali per sentimento proprio con quel popolo con cui condividevano l’estrazione) e dei mercenari svizzeri con la coscrizione di una Guardia Nazionale. I miliziani, data l’impossibilità di fornire loro uniformi, furono addobbati con una coccarda che riprendeva i colori di Parigi, il rosso ed il blu che più avanti avrebbero contornato il bianco della casa reale nel drapeau français, il tricolore adottato dalla Rivoluzione. E il marchese de Lafayette si ritrovò nuovamente a capo di una milizia rivoluzionaria, ma stavolta sul suolo della sua patria.
Mentre Desmoulins chiamava i cittadini alle armi (non più sudditi, cittadini), la Guardia scoprì di avere a disposizione armi a volontà, saccheggiate all’Hotel des Invalides, ma niente polvere da sparo. Quest’ultima era custodita dalle truppe regie all’interno della Bastiglia.
La vecchia fortezza medioevale che dominava le mura orientali di Parigi costituiva l’incarnazione del potere regio e dell’ancien régime come nient’altro. Dalla fine del Trecento all’interno di essa erano stati rinchiusi i nemici dello Stato, o per meglio dire del Re. Qui si vociferava che avesse trovato il suo destino il prigioniero della maschera di ferro, il presunto fratello gemello di Luigi XIV. Qui avevano soggiornato personaggi illustri, intellettuali e politici di rango come Voltaire, Fouquet, Mirabeau, avventurieri come Giuseppe Balsamo Conte di Cagliostro, soggetti estemporanei come lo psicopatico Donatien-Alphonse François marchese De Sade, che – scarcerato pochi giorni prima dell’assalto popolare – visse il suo momento di massima celebrità infiammando il popolo con truculenti racconti delle torture perpetrate all’interno della fortezza. Per poi essere nuovamente riconosciuto per quello che era, uno spostato, e nuovamente rinchiuso. Stavolta in manicomio.
Ironia della sorte, Luigi XVI aveva già decretato l’abbattimento della fortezza, in quanto economicamente non più sostenibile (conteneva ormai sette prigionieri soltanto, nessuno dei quali politico) ed obsoleta. A quel decreto dette esecuzione la rabbia popolare la mattina del 14 luglio. Gli insorti, che attendevano da un momento all’altro l’entrata a Parigi dell’esercito reale e tentavano di fortificarsi ed organizzarsi, si presentarono al governatore De Launay ed alla sua guarnigione (82 veterani, per lo più invalidi, e 32 guardie svizzere) intimando loro la resa. De Launay tentò di trattare, ma la tirò per le lunghe. All’ora di pranzo, il popolo assaltò la fortezza, divelse il ponte levatoio e dilagò all’interno, massacrando i difensori. Gli svizzeri riuscirono a negoziare la propria sopravvivenza, i veterani finirono fatti a pezzi, così come il loro governatore. Quelle teste mozzate infilate su delle picche e portate all’Hotel de Ville in segno di vittoria furono le prime decollate dalla Rivoluzione che prese ufficialmente il via quel giorno, e che la Francia celebra tutt’oggi come festa nazionale, la sua ora più grande.
La Presa della Bastiglia fu un fatto d’armi e di sangue di portata assai ridotta, ma dal valore simbolico enorme. Come il Boston Tea Party del 1773 lo era stato per la Rivoluzione Americana, la prise fu l’evento a partire dal quale si contarono i giorni, i mesi, gli anni e tutto ciò che successe dopo. La Grande Rivoluzione, cominciata come rivolta disperata di un popolo affamato, finì per travolgere molto più di un sovrano e del suo esercito. Sconvolse per sempre ed in modo irreparabile un mondo antico che affondava le radici in un epoca ed una cultura sopravvissute a se stesse da oltre un millennio. Spazzò via monarchia assoluta e diritto divino, Stato autoritario e Chiesa cattolica. Un Re di discendenza barbarica ed un Dio troppo simile a quello dell’Antico testamento. Aprì le porte ad un Mondo Nuovo che in realtà era il ritorno ad un mondo ancora più antico, quello dell’Età dell’Oro greco-romana, che poteva finalmente sviluppare le sue premesse interrotte ed abbandonate dal Medioevo e dispiegare le vele verso al modernità.
In pochi anni, la Grande Rivoluzione ripeté in estrema sintesi la parabola della Repubblica e dell’Impero Romano, fino ad allora l’unico altro esempio nella storia di un popolo che cerca di governare se stesso. La cacciata di un monarca tiranno, la Repubblica democratica basata sul censo, le spinte radical-popolari (che avrebbero dovuto attendere un’altra Rivoluzione, quella russa del 1917 per trovare una soddisfazione che i Giacobini francesi non erano stati capaci di dare loro), la guerra civile, il Terrore delle purghe, la deriva dittatoriale causata dall’inefficienza del Senato – Direttorio e dal troppo sangue versato, lo sbocco imperiale non appena si affacciò il nuovo Cesare, Napoleone Bonaparte, la caduta determinata dall’impossibilità di gestire un territorio diventato ormai troppo esteso, fino alle porte di Mosca.
Come il legionari di Giulio Cesare erano stati affiancati ed aiutati nella conquista di un Impero dalla superiore civiltà romana, i soldati di Napoleone erano preceduti dalla fiamma della Rivoluzione che riscaldava i cuori di un’Europa ormai stanca dell’ancien régime, desiderosa di risorgimenti nazionali come quello italiano, quello tedesco, quello ungherese e via via di tutti i popoli soggetti ad Imperi che avevano perso il loro fascino e la loro ragione spirituale prima ancora che politica.
Quando a Vienna nel 1814 si riunì un Congresso che tentava di riportare indietro l’orologio di una storia ormai impazzita, riuscì solo a ridisegnare confini e a rimettere sul trono dinastie. Non riuscì a convincere nessuno, nobile, borghese e popolano, che quello fosse veramente il futuro. Si trattava solo di aspettare una nuova occasione. 15 anni dopo, Parigi era di nuovo in fiamme, i Capeto-Borbone rappresentati dall’ultimo rampollo Carlo X succeduto al restaurato Luigi XVIII (*), dovettero fuggire di nuovo, e questa volta senza ritorno. Il nuovo re era Filippo d’Orleans, il duca liberale, un re borghese. Nominato per volontà della nazione. La grazia di Dio aveva abbandonato per sempre Versailles ed ogni altra reggia d’Europa.
Napoleone Bonaparte, il primo condottiero dopo Giulio Cesare a conquistarsi una corona sulla punta delle baionette dei suoi soldati, era scomparso da nove anni. Un 5 maggio, come quel giorno in cui Luigi XVI aveva convocato gli Stati Generali credendo di ricorrere ad un geniale escamotage per addossare alla nazione responsabilità e colpe che, come la storia stava per sbattergli clamorosamente in faccia, erano soltanto sue e di quel malinteso, barbarico sentimento religioso che ne aveva fatto un vicario di Dio in terra.
Pochi mesi dopo, ad un servitore accorso ad informarlo del popolo in armi che si scagliava contro il portone della Bastiglia, avrebbe chiesto: «E’ una ribellione?»
E il servitore, atterrito ed esterrefatto, gli avrebbe risposto: «No, Sire. E’ una rivoluzione!»
(*) Luigi XVIII era il fratello minore del re ghigliottinato dalla Rivoluzione. Assunse il numero diciotto di successione dinastica in ottemperanza al volere dei elalisti monarchici francesi, che dopo l’esecuzione di Luigi XVI e Maria Antonietta avevano dichiarato erede il loro figlio il Delfino di Francia. Quest’ultimo morì in prigionia nel Tempio di Parigi nel 1795. Nel 1814, dopo la sconfitta di Napoleone, il Congresso di Vienna, desideroso di far considerare a tutti l’intermezzo rivoluzionario come un incidente di percorso storico e di procedere ad una Restaurazione legittimista, riconobbe a posteriori la successione del Delfino come re di Francia diciassettesimo del proprio nome, e quindi quella dello zio come diciottesimo. Luigi XVIII non ebbe figli, fu l’ultimo re francese a morire in carica, nel 1824, ed alla sua morte gli successe l’ultimo fratello, Carlo conte d’Artois incoronato come Carlo X. Quest’ultimo fu detronizzato nel 1830 dalla Rivoluzione liberale di Luigi Filippo d’Orleans.
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