Olimpiadi

«Quel ragazzo si romperà il collo…»

Ci sono molte discipline sportive che hanno finito per identificarsi principalmente con qualche atleta che ne ha scritto la storia in un modo o in qualche momento particolare. Bob Beamon saltò 8 metri e 90 nel Lungo a Città del Messico. Fu accusato di avere ucciso il suo sport stabilendo una misura che nessun altro essere umano avrebbe mai potuto migliorare in futuro. Mike Powell lo fece, 8,95 mt, ai mondiali di Tokyo del 1991, 23 anni dopo. Ma il record olimpico appartiene ancora a Beamon, e gli anni passati in questo caso sono 55.

E tuttavia non è a lui che vien fatto di pensare se si considera l’immedesimazione di una disciplina con l’atleta che l’ha rivoluzionata, cambiata, segnata per sempre. Successe anche in questo caso a Mexico City, nel ’68 che aveva visto il salto di Beamon, il pugno chiuso di Tommy Smith sul podio dei 200 mt. piani in onore delle Black Panthers. La cosa più straordinaria fu però il Salto in Alto vinto da un ragazzo della provincia americana a cui ben pochi avevano concesso i favori del pronostico prima della competizione che avrebbe cambiato la storia.

Il peggior saltatore dello Stato. Così Dick Fosbury pensava di se stesso all’epoca in cui le sue misure erano meno che mediocri e la sua autobiografia (The Wizard of Foz, il Mago di Foz) era ben di là da essere scritta.

Dick era nato nel 1947 a Portland, Oregon, da due immigrati inglesi in fuga da un difficile dopoguerra nella madrepatria. Bravino a scuola, niente di che nelle discipline sportive a cui la pubblica istruzione americana attribuisce da sempre un posto particolare nel curriculum scolastico.

Ci aveva provato con Baseball e Basket, gli sport yankee per eccellenza. Niente da fare. Anche nel Salto in Alto su cui aveva ripiegato si toglieva poche soddisfazioni, per non dire nessuna. Finché la vita, come fa a volte con coloro per cui ha stabilito percorsi alternativi di sofferenza e riscatto per le sue vie imperscrutabili, gli aveva dato quella spinta in più. Una terribile spinta in più.

Era in bicicletta con il fratellino quando il camion che lo investì se lo portò via, graziando lui. Il matrimonio dei genitori non sopravvisse a quella tragedia, ed improvvisamente il ragazzo Dick si trovò a fare i conti con la vita in una maniera imprevedibile, e tutto da solo.

A quel tempo il Salto in Alto si effettuava con la tecnica dello scavalcamento ventrale o a forbice dell’asticella. Con quelle tecniche per Dick non ce n’era, non andava oltre il metro e 62 centimetri.

Finché nel 1963 ad un meeting  di atletica statale decise di dare retta al suo istinto sempre più potente e di lasciare che il suo corpo, una volta in aria, seguisse una traiettoria del tutto nuova ed inusuale. «Quando il bilanciere ha raggiunto un’altezza che non avevo mai raggiunto prima, ho capito che dovevo fare qualcosa di diverso. Ho iniziato a cambiare posizione del mio corpo: man mano che il bilanciere si alzava, passavo da una posizione seduta a un’altra più sdraiata sulla schiena».

Risultato, miglioramento del proprio record personale fino a 1,82 mt. E quarto posto finale nella competizione. Non era più il peggior saltatore dell’Oregon, e prometteva di diventare uno dei primi del paese. Gli addetti ai lavori reagirono come fanno sempre di fronte a certe novità. «Quel ragazzo si romperà il collo», dissero alcuni allenatori presenti riferendosi alla tecnica di salto di schiena che costituiva una novità assoluta nella disciplina.

Non fu così, ed anzi la sorte decise di risarcire il ragazzo Fosbury con gli interessi. Erano gli anni della guerra del Vietnam, i giovani americani venivano chiamati alla leva obbligatoria, e gli sportivi non facevano eccezione. Il ragazzo che saltava di schiena ricadendo da quasi due metri fu scartato alla visita di leva per una malformazione alla colonna vertebrale. Un gioco di quei tanti che fa la vita, dice una canzone.

Un bel gioco, nel suo caso. Nell’ottobre del 1968 Dick Fosbury avrebbe potuto essere nella valle del Mekong, alle prese con competitors assai micidiali. Invece era a Mexico City a giocarsi la medaglia d’oro del Salto in Alto, dopo aver sconfitto ai trials americani prima di tutto coloro che non avevano creduto in lui, ed ai quali non sarebbe bastata l’eternità per cambiare idea.

Era il giorno 20, quello della finale. Ecco le parole di Dick Fosbury: «Una volta in aria, potevo sentire lo spazio tra il mio corpo e l’asticella. Sapevo di aver superato l’asticella più alta della mia vita. L’intero stadio è esploso, è stato un grande momento. Non lo dimenticherò mai».

Fosbury saltò 2,24 mt., stabilendo il nuovo record olimpico. Leggenda vuole che saltasse con due scarpe di colore diverso, circostanza che lui spiegò così:  «perché la destra di quel colore mi dava una spinta verso l’alto superiore rispetto a un altro tipo di calzatura».

Niente sarebbe più stato come prima. Né la sua vita, né il suo sport. Ormai era una celebrità assoluta, anche se quella nuova dimensione esistenziale era l’ultima cosa che gli interessava. Aveva saltato in alto per lasciarsi indietro, a terra il proprio dolore. Adesso che ce l’aveva fatta non aveva più niente da dimostrare a nessuno.

Dick Fosbury dette l’addio all’atletica ed alle sue scarpette bicolori l’anno dopo la medaglia d’oro olimpica. Gli studi di ingegneria civile a quel punto erano la sua nuova frontiera. A Monaco di Baviera nel 1972 lui non sarebbe andato a difendere la sua medaglia, ma è un dato di fatto che ben 28 dei 40 atleti che a Monaco si presentarono per succedergli adottavano il Fosbury Flop, la sua tecnica rivoluzionaria ormai non più in discussione.

Dick Fosbury se n’è andato ieri all’età di 76 anni. «Pensavo che dopo aver vinto l’oro, uno o due saltatori avrebbero iniziato a usarlo, ma non ho mai pensato che sarebbe diventata la tecnica universale».

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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