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Quella mattina a Piazza Sansepolcro

Il 2 marzo 1919 apparve sulle colonne del quotidiano il Popolo d’Italia una inserzione all’apparenza come se ne vedevano e se ne vedono tante. Si annunciava che era indetta per il giorno 23 marzo successivo a Milano in Piazza Sansepolcro, presso la sede dell’Associazione Industriali, una riunione avente per oggetto la costituzione di un nuovo movimento politico. Anzi, un rassemblement, per dirla alla francese.

I Fasci di Combattimento furono un’altra idea brillante venuta in testa ad un uomo che aveva già dimostrato di averne parecchie. Benito Mussolini era già noto agli italiani come uno degli esponenti di maggior spicco della vita politica del loro paese, negli anni tormentati a cavallo della Prima Guerra Mondiale.

Ex socialista uscito (anzi espulso) dal partito alla vigilia del conflitto per non essere riuscito a far prevalere la corrente massimalista – rivoluzionaria su quella riformista che lo aveva guidato fin dalla nascita nel 1892 e che adesso era alle prese con il dilemma che fare? con cui si confrontavano i movimenti di sinistra di tutta Europa (stretti tra la necessità di non schierarsi a favore della guerra borghese e quella di sopravvivere alla prevedibile reazione dell’establishment alla renitenza di massa alla leva), Mussolini aveva dimostrato di avere – dal suo punto di vista – coraggio, idee chiare, visione strategica.

BenitoMussolini180324-006La fondazione del Popolo d’Italia nel 1914 nei giorni in cui la Triplice Intesa tirava la giacchetta di Salandra e Sonnino per ottenere l’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra ed il suo schieramento deciso nel campo dell’interventismo (di cui era da subito diventato il capofila) era stato un colpo da maestro. Mentre gli ex compagni socialisti gli domandavano pubblicamente chi paga?, accusandolo più o meno esplicitamente di essere al soldo di potenze straniere – soprattutto la Francia – Mussolini non aveva fatto mistero né rammarico della propria svolta ideologica e aveva picchiato duro sul governo nazionale che tentennava, ancora incerto tra una neutralità di buonsenso ed un intervento allettato dal miraggio di facili conquiste, anche oltre quelle che completavano il programma di unità nazionale rimasto in sospeso dalle guerre risorgimentali.

Che poi non tanto di svolta si trattava, quanto di maturazione alle estreme conseguenze di una ideologia che Mussolini aveva fatto propria e nutrito fin dalla turbolenta adolescenza. Il giovane Benito era stato un anarchico più che un socialista, imbevuto di quelle teorie oscillanti tra il nichilismo del tanto peggio tanto meglio che avrebbe tenuto a battesimo anche la futura classe dirigente dell’unica altra rivoluzione di successo oltre alla sua, quella bolscevica russa, e la concezione della violenza come levatrice della storia. Niente succede, niente cambia senza violenza, Mussolini aveva fatto proprio questa massima e l’aveva rinfacciata al partito che l’aveva espulso. E nell’immediato dopoguerra si disponeva adesso a cogliere i frutti della sua intuizione.

C’erano stati due soli politici italiani ad avere una visione chiara fin nelle conseguenze più a lungo termine di cosa avrebbe comportato per la giovane nazione italiana l’ingresso in una guerra di quelle proporzioni e per la quale era tutt’altro che preparata, come avevano dimostrato le recenti imprese coloniali: quella sfortunata di Etiopia conclusasi con il disastro di Adua nel 1896 e quella conclusasi vittoriosamente due anni prima in Libia con la conquista dell’ex dominio ottomano. L’esercito italiano non era pronto a nuove, devastanti avventure, la società civile lo era ancor meno.

La sala dell'adunata al Circolo dell'Associazione Industriali

La sala dell’adunata al Circolo dell’Associazione Industriali

Giovanni Giolitti era l’uomo politico più abile e prestigioso di inizio secolo, una specie di Giulio Andreotti dell’epoca, convinto della necessità di guidare la arretrata società italiana (a inizio secolo l’80% della popolazione viveva ancora immersa in un medioevo agricolo che la poneva assai più indietro nel novero delle nazioni più evolute rispetto agli standard che oggi definiremmo occidentali) in una transizione a piccole dosi e senza scosse verso un nuovo progresso industriale e di emancipazione sociale.

Per Giolitti, l’Italia era un vaso di coccio che sarebbe andato in frantumi mescolandosi tra i vasi di ferro che si stavano scontrando sui campi di battaglia da Ypres a Brest-Litovsk. Le sue fragili strutture economiche e sociali non avrebbero retto agli sconvolgimenti provocati da un conflitto che non era più di tipo ottocentesco (il Risorgimento stesso era stato tutto sommato una questione di èlites, non una guerra di popolo) ma che appunto metteva a ferro e fuoco tutto il mondo, e coinvolgeva i civili allo stesso modo dei militari.

Nel 1913 Giolitti aveva fatto un primo esperimento di transizione democratica inserendo nell’ordinamento italiano il suffragio universale maschile pur sulla base ancora del sistema maggioritario. Il vecchio glorioso partito liberale ne aveva subito risentito, vedendo pericolosamente ridursi le distanze da quello socialista, appunto, e vedendo profilarsi all’orizzonte anche un altro competitor formidabile, quei popolari che Don Sturzo stava organizzando in partito dei cattolici, o almeno di quei cattolici ai quali il non expedit papale successivo alla breccia di Porta Pia andava ormai strettissimo. Giolitti aveva contato di acquisire progressivamente alla democrazia queste forze, evitando derive bolsceviche come quella che stava avendo luogo in Russia. La guerra avrebbe vanificato le sue previsioni ed i suoi sforzi.

L’altro uomo politico lungimirante, ma sul fronte opposto, era appunto Benito Mussolini. L’uomo che un giorno sarebbe stato chiamato Duce aveva intravisto nella guerra imminente e inevitabile (Salandra e Sonnino cedettero a Londra nell’aprile 1915, alleandosi all’Entente Cordiale a decorrere dal successivo 24 maggio) l’occasione di far saltare il banco e di scatenare quella rivoluzione che lui e molti altri vedevano ormai come altrettanto inevitabile, per scardinare un ordine borghese che veniva percepito ormai come altrettanto vecchio e superato dai tempi come la vecchia Europa degli Imperi che non sarebbe sopravvissuta alla guerra.

Così fu. Poco dopo la firma dell’armistizio e lo storico discorso di Armando Diaz, mentre a Versailles si discuteva di quella pace che in Italia sarebbe stata propagandata come la vittoria mutilata, Mussolini intercettò il malcontento di molti amalgamandolo in quel Fascio primigenio che la sera del 19 marzo 1919 fu costituito a Milano e che la mattina del 23 fu presentato all’Italia intera, affinché potesse vantare quanti più tentativi di imitazione possibili.

Mussolini arringa la folla a Sansepolcro

Mussolini arringa la folla a Sansepolcro

I Fasci erano destinati ad avere il sostegno delle componenti sociali e degli individui di estrazione più disparati. Non soltanto degli industriali che – spaventati dalla rivoluzione comunista sovietica e che già avvertivano le avvisaglie di quello che in Italia sarebbe passato alla storia come il Biennio Rosso – furono ben lieti di mettere a disposizione la sede della loro associazione, dietro pagamento di simbolico affitto. A Sansepolcro c’erano anche tutti gli scontenti dei vecchi movimenti anti-borghesi e repubblicani, delusi dalla tiepida opposizione di socialisti & C. alla guerra e a chi l’aveva voluta. C’erano anche i reduci delle trincee, delusi dalla tiepida e a volte decisamente ostile accoglienza trovata al ritorno a casa dal fronte, molti di loro ancora con l’adrenalina in circolo e la voglia di menar le mani non soddisfatta da quattro anni di guerra. Era il caso degli Arditi che influenzarono nella simbologia e nello spirito le prime fogge esteriori ed i primi atteggiamenti dei Fascisti. Gli altri erano ripresi dal passato glorioso dei Littori dell’Antica Roma: «ci sono nella nostra storia, nel nostro sangue, degli elementi e dei fermenti di grandezza, poiché se ciò non fosse noi oggi saremmo l’ultimo popolo del mondo». Il vecchio nazionalismo insomma fondava e giustificava il nuovo.

Mussolini cavalcava più tigri, con il plauso interessato di diversi aspiranti domatori. E tuttavia la piattaforma comune elaborata a collante di questo universo variegato di opposti estremismi e aspiranti e poco raccomandabili avventurieri – su cui egli dimostrò di avere da subito un incredibile ascendente – a rileggerla oggi con il senno di poi e la conoscenza della storia successiva sorprende per quanto fosse avanzata politicamente e socialmente, sia rispetto all’epoca che ad alcune di quelle successive.

Il Programma di Sansepolcro

Il Programma di Sansepolcro

Nel programma annunciato ai fascisti, si legge tra l’altro di suffragio universale (donne comprese, in tal caso l’Italia sarebbe stata al pari con le grandi democrazie anglosassoni) con elettorato attivo a 18 e passivo a 25; di abolizione del Senato e di convocazione di apposita Assemblea Costituente per stabilire la forma di costituzione dello Stato, con preferenza dichiarata per quella repubblicana; minimi salariali e giornata lavorativa di otto ore per tutti, con partecipazione delle organizzazioni sindacali alla gestione delle imprese industriali; previdenza sociale e pensioni di invalidità e anzianità; riforma dell’esercito secondo quello che sarebbe poi stato il modello svizzero (brevi periodi di addestramento e richiami frequenti); espropriazione

Mussolini all'uscita dell'adunata

Mussolini all’uscita dell’adunata

parziale dei latifondi e socializzazione delle imprese essenziali; sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose.

Se il Fascismo avesse mantenuto le promesse fatte a Sansepolcro, sarebbe passato alla storia come la forma più avanzata di socialdemocrazia del ventesimo secolo. Non è un caso che al programma di Mussolini si ispirarono gli stessi Lenin e Stalin al momento di elaborare la prima costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. La storia in realtà andò in un altro senso. La svolta autoritaria imposta dai gerarchi allo stesso Mussolini a partire dal 3 gennaio 1925 andava probabilmente al di là delle stesse intenzioni di quello che era destinato a restare nella storia d’Italia come un dittatore, colpevole tra l’altro di essersi alleato con i personaggi e le forze più abbiette del secolo e del mondo che aveva inizialmente affascinato. Le classi dirigenti e le pubbliche opinioni di Gran Bretagna e Stati Uniti, non solo gli aspiranti fuhrer caudillos, ritennero a lungo – fino alla vigilia della seconda guerra mondiale –  il padre del Fascismo come un grande uomo politico, che avrebbe modernizzato il suo paese tirandolo fuori dal medioevo e proiettandolo nel futuro tecnologico. Molti, anche nelle grandi democrazie, ritenevano addirittura che avesse qualcosa da insegnare anche in casa loro.

Chissà cosa pensava veramente di se stesso e della propria opera consegnata ormai alla storia il Mussolini di Salò, nel bel mezzo del ferro e del fuoco di una guerra addirittura più atroce di quella in cui aveva avuto l’intuizione grazie alla quale né il suo paese né il mondo intero sarebbero più stati gli stessi.

Autore

Simone Borri

Simone Borri è nato a Firenze, è laureato in scienze politiche, indirizzo storico. Tra le sue passioni la Fiorentina, di cui è tifoso da sempre, la storia, la politica, la letteratura, il cinema.

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